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Le spese militari globali hanno raggiunto il record di 2440 miliardi in un anno

Nel 2023 la spesa militare mondiale ha raggiunto il massimo storico di 2.443 miliardi di dollari, con un aumento del 6,8% in termini reali rispetto al 2022. Si tratta – scrive nel suo articolo Giorgia Audiellodell’aumento su base annua più marcato dal 2009 e, a partire dallo stesso anno, è la prima volta che si registra un aumento della spesa militare in tutte e cinque le regioni geografiche – Europa, Asia e Oceania, Medio Oriente, Africa e Americhe – con aumenti particolarmente elevati registrati nelle prime tre. È quanto emerge dall’ultimo rapporto dell’Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma (Sipri) sulla spesa militare globale 

«L’aumento senza precedenti della spesa è una risposta diretta al deterioramento globale della pace e della sicurezza», ha affermato Nan Tian, ​​ricercatore senior presso il Programma di spesa militare e produzione di armi del SIPRI, aggiungendo che «Gli stati stanno dando priorità alla forza militare, ma rischiano una spirale di azione-reazione nel panorama geopolitico e di sicurezza sempre più instabile». Secondo il rapporto, a contribuire maggiormente alle spese militari globali sono state la guerra in Ucraina, ma anche le crescenti tensioni geopolitiche in Asia e Oceania e in Medio Oriente. I due primi Paesi al mondo per spesa militare sono Stati Uniti e Cina, seguiti da Russia, India, Arabia Saudita, Regno Unito, Germania, Ucraina, Francia e Giappone. Insieme, i primi dieci Paesi che spendono di più per spesa militare hanno rappresentato i tre quarti della spesa complessiva mondiale (74%) nel 2023, pari a 1799 miliardi di dollari, ossia 105 miliardi in più rispetto all’anno precedente. Stati Uniti e Cina rappresentano, rispettivamente, il 37 e il 12 per cento della quota complessiva – quasi la metà della spesa globale – con aumenti del 2,3 e del 6 per cento rispetto al 2022… La Russia, che occupa il terzo posto nella classifica delle prime 10 nazioni che spendono di più in armamenti, ha aumentato del 24% i suoi investimenti bellici per un totale di 109 miliardi di dollari nel 2023, segnando un aumento del 57% rispetto al 2014, anno in cui la Crimea ha aderito alla Federazione russa.

 leggi per esteso l’articolo di Giorgia Audiello su l’Indipendente.online

 

Transizione ecologica, una danza immobile: dobbiamo abbandonare l’arrogante antropocentrismo per entrare nella “Koinocene”, della comunanza

Scrive Paolo Cacciari: “Acquisire una coscienza di specie e di luogo, oltre che di genere, di generazione, di classe sociale, ci permetterebbe di percepirci come parte della rete della vita e di capire quale è il posto degli esseri umani nel mondo”

I nemici dell’ambiente più pericolosi oggi sono coloro che proprio in nome della protezione della natura hanno lanciato un progetto in grande stile di appropriazione, colonizzazione, sfruttamento dei beni comuni globali. Tra loro non ci sono solo imprese multinazionali dell’estrattivismo ma anche istituzioni, come l’Ue, con gli ambiziosi programmi di Green Deal, green economy, certificazioni verdi ed economia circolare. Il ruolo degli Stati nella devastazione ambientale è centrale. Ma non si tratta di sostituire poteri cattivi con potere buoni. Abbiamo bisogno di una trasformazione strutturale dei modi di produzione e di consumo, una conversione dei comportamenti umani e della mentalità delle persone, ossia del modo di pensare noi stessi nel rapporto con gli altri e con la natura …  Gli effetti boomerang, retroattivi, provocati da una pressione antropica insostenibile sugli ecosistemi non sono più occultabili …  Nei prossimi decenni ampie aree del pianeta, dove ora vive più di un miliardo di persone, specie nelle regioni equatoriali, diventeranno inabitabili. Folle di sfollati, profughi, migranti si metteranno in marcia via via che si manifesterà il cambiamento climatico. Per cinica realtà, le popolazioni che meno hanno contribuito al surriscaldamento dell’atmosfera sono le prime a subirne le conseguenze più pesanti. Come giustamente dice la giovane e coraggiosa attivista svedese, Greta Thunberg (2022): “Siamo tutti in balia della stessa tempesta, ma di certo non siamo tutti sulla stessa barca”. Qualcuno è più “resiliente” di altri … In generale il processo di privatizzazione dei doni gratuiti della natura tende a inglobare ogni soffio della vita, ogni anfratto dell’esistente, trasformandolo in commodities, in merci. “Il capitale si fa mondo”, ha scritto Jason Moore (2014), anzi, grazie alla space economy, cosmico. Un’operazione ciclopica resa possibile dalle nuove tecnologie (microelettronica, nanotecnologie, biologia sub-molecolare ecc.) la cui potenza applicata ai mezzi di produzione di massa è paragonabile all’invenzione del vapore applicato alle macchine (Quarta rivoluzione industriale). L’operazione di colonizzazione inizia con lo stabilire la posta in gioco: il valore economico dei beni naturali è stato stimato in 4 milioni di miliardi (4.000 trilioni), capace di generare un flusso di 125.000 miliardi all’anno, più di tutto il valore del Pil mondiale (stimato attualmente in 100.000 miliardi all’incirca). L’individuazione di un nuovo così grande giacimento di valore, a cui poter attingere, trasformare in denaro e rimettere in circolazione, costituisce una grande fortuna per le sorti stesse dell’economia capitalista.

abstract dell’intervento di Paolo Cacciari su comune-info

 

Crisi climatica, i media italiani ne parlano di più ma senza nominare i responsabili

Crescono lo spazio dedicato al negazionismo e le pubblicità fossili. Sturloni (Greenpeace): «A causa dell’influenza economica di Eni e delle altre aziende inquinanti, in Italia non c’è libertà di stampa sul clima». Nell’ultimo anno sono cresciute in numero le notizie pubblicati dai principali media italiani sulla crisi climatica, ma è al contempo diminuita l’analisi della cause. E in parallelo, sono in risalita le narrazioni contro la transizione ecologica. Un contesto complessivamente drammatico, in cui però resiste un nucleo di giornali – riuniti da Greenpeace nella Stampa libera per il clima, con anche greenreport  – che promuove un’informazione indipendente e scientificamente fondata sulla crisi climatica

È quanto emerge dal secondo rapporto annuale sull’informazione dei cambiamenti climatici nel nostro Paese, realizzato per Greenpeace dall’Osservatorio di Pavia, che tra gennaio e dicembre 2023 ha acceso un faro su come la crisi climatica è stata raccontata dai cinque quotidiani nazionali più diffusi (Corriere della Sera, la Repubblica, Il Sole 24 Ore, Avvenire, La Stampa), dai telegiornali serali delle reti Rai, Mediaset e La7 e dalle 20 testate di informazione più seguite su Instagram. «Il monitoraggio effettuato sui principali media italiani nell’anno più caldo di sempre conferma che, a causa dell’influenza economica di Eni e delle altre aziende inquinanti, in Italia non c’è libertà di stampa sul clima, nonostante gli impatti sempre più gravi ed evidenti del riscaldamento del pianeta», spiega Giancarlo Sturloni, responsabile della comunicazione di Greenpeace Italia. In particolare, i quotidiani hanno pubblicato in media 2,7 articoli al giorno (contro i 2 del 2022) contenenti almeno un accenno alla crisi climatica, sebbene quelli effettivamente dedicati al clima siano appena un terzo. In compenso, nello stesso periodo gli stessi quotidiani hanno ospitato 1.299 inserzioni pubblicitarie – contro le 795 del 2022 – dedicate all’industria dei combustibili fossili e delle aziende dell’automotive, aeree e crocieristiche, tra i maggiori responsabili del riscaldamento del pianeta. Secondo l’analisi, questo è uno degli elementi che spiegano perché si parla sempre meno delle cause del riscaldamento globale (in calo dal 22% al 15% rispetto al 2022) e di combustibili fossili (indicati come causa solo nel 5,5% degli articoli), mentre le compagnie del gas e del petrolio sono indicate come responsabili in appena 14 articoli durante l’intero anno. In base ai risultati dello studio, Greenpeace ha inoltre stilato la classifica per l’anno 2023 dei principali quotidiani italiani: raggiunge la sufficienza soltanto Avvenire (con 6 punti su 10), segue La Stampa (4,2 punti) mentre risultano gravemente insufficienti Repubblica (3,8 punti), Corriere (3,2 punti) e Il Sole 24 Ore (3 punti). Non va meglio passando dall’analisi dei quotidiani a quella dei tg, che hanno parlato esplicitamente di crisi climatica nel 2,3% delle notizie trasmesse (contro l’1,9% del 2022) e solo 1 volta hanno indicato le compagnie petrolifere come responsabili. Il Tg5 è il telegiornale che in percentuale ha dedicato più spazio al clima (con il 2,7% delle notizie trasmesse), mentre fanalino di coda si conferma il Tg La7 di Enrico Mentana (1,6%). Il Tg1 e il Tg2 scivolano rispettivamente al terzultimo e al penultimo posto, sintomo del «condizionamento del Governo Meloni sulla Rai», come sottolineano da Greenpeace. Coerentemente, le narrative contrarie alla transizione energetica trovano sempre più spazio. Nel 2023 sono state veicolate dal 16% degli articoli dei quotidiani e dal 14% delle notizie dei telegiornali che parlano di clima, e si assiste inoltre a un ritorno del negazionismo climatico di vecchio stampo. Per quanto riguarda infine le testate d’informazione più diffuse su Instagram, canale di riferimento per i più giovani, le notizie sulla crisi climatica si attestano al 3,2% sul totale dei post pubblicati

il rapporto completo su greenreport

 

Ponte di Messina, dalla commedia alla farsa. Cosa resterà dell’in-credibile progetto già accantonato 11 anni fa? Paradossi, lacune, omissioni, ma di chi è la responsabilità e cui prodest ?

Smontato da 534 pagine di osservazioni redatte da esperti di 9 atenei e presentate dalle associazioni ambientaliste e dai comitati dei cittadini messinesi, il Ponte sullo Stretto è stato grottescamente confermato dal governo.

Il 15 aprile scorso primo giorno di apertura della conferenza di servizi istruttoria sul cd Progetto Definitivo (PD) del ponte sullo Stretto di Messina, dopo 21 anni di studi e di progettazioni inconcludenti, sono arrivate dalla Commissione Tecnica sulla Valutazione di Impatto Ambientale (CTVIA) le 221 richieste principali di integrazione* al cosiddetto PD 2024 del ponte sullo Stretto di Messina pubblicate sul portale online VIA-VAS (155 relative alla VIA e 66 delle quali relative alla Valutazione di Incidenza sui siti della Rete Natura 2000 e su tutte le componenti ambientali più rilevanti), a cui si aggiungono 16 richieste di integrazioni inerenti il Piano di Utilizzo delle Terre e 2 relative alla Verifica di Ottemperanza. Integrazioni richieste dalla Commissione Tecnica VIA (CTVIA). Richieste che attestano l’impossibilità di approvare il Progetto (non) Definitivo, di passare al Progetto Esecutivo e di aprire i cantieri, prima dell’estate o entro fine anno. Alle pesanti richieste di integrazione della CTVIA bisogna aggiungere la demolizione del progetto contenuta nelle 534 le pagine di contestazioni e controdeduzioni contenute nelle Osservazioni – redatte da un gruppo di lavoro di 38 esperti, tra cui 12 sono i docenti nelle diverse materie ambientali di 9 diversi atenei (Università di Firenze, Napoli, Messina, Palermo, Reggio Calabria, Roma La Sapienza, Torino, IUAV di Venezia, Politecnico di Milano). Osservazioni inviate l’11 aprile scorso dalle associazioni ambientaliste (Italia Nostra, Kyoto Club, Legambiente, Lipu, MAN e WWF) e dai comitati dei cittadini messinesi (Associazione “Invece del ponte” e “No Ponte Capo Peloro”) nell’ambito della procedura di Valutazione di Impatto Ambientale – VIA. Osservazioni su cui, secondo la CTVIA, il proponente (SdM SpA e Eurolink) è bene che fornisca le proprie controdeduzioni. I cittadini, le associazioni e i comitati, oltre che competenti, sono infinitamente pazienti: infatti siamo alla replica di quanto già avvenne tra il 2011 e il 2013. Lo stesso PD (Progetto Definitivo) di allora era un colabrodo, la CTVIA chiese integrazioni e alla fine espresse il Parere n. 1185 nel 2013. che enumerava 27 prescrizioni, 18 delle quali solo parzialmente ottemperate (tra cui gli aspetti geo-sismo-tettonici e idrogeologici) e 1 non ottemperata e quindi, negativa, relativa alla valutazione di incidenza sulle aree della Rete Natura 2000 (tutelate dall’Europa). Ora, ci troviamo al paradosso che una CTVIA dimissionaria, il mandato scade il 24 maggio, ha dovuto fare la richiesta di integrazione (ai sensi del DL n. 35/2023) per poi lasciare il testimone alla nuova CTVIA che deve essere ancora nominata e che, ci si augura, sia selezionata per competenza e non per appartenenza o compiacenza politiche. Poveri futuri commissari che, se competenti e autonomi, dovranno avere a che fare con cosiddetto PD di un ponte letteralmente in-credibile ad unica campata, a doppio impalcato (stradale e ferroviario) di 3,3 km di lunghezza, sorretto da due torri di 400 metri di altezza, che dovrebbe essere realizzato in una delle aree a maggior rischio sismico e di turbolenza per i venti del Mediterraneo.

estratto da sbilanciamoci.info

 

Fondazione GIMBE, un’analisi sulla lenta agonia del sistema sanitario pubblico italiano 

I numeri sono quelli del Documento di Economia e Finanza (DEF), a citarli è Nino Cartabellotta Presidente della Fondazione GIMBE, organizzazione senza fini di lucro che ha lo scopo di promuovere e realizzare attività di formazione e ricerca in ambito sanitario. E intende contribuire alla sostenibilità del servizio sanitario pubblico, che deve essere equo e universalistico

“Rispetto alle previsioni di spesa sanitaria sino al 2027 – afferma Cartabellotta – il DEF 2024 certifica l’assenza di un cambio di rotta e ignora il pessimo ‘stato di salute’ del Servizio Sanitario Nazionale (SSN), i cui princìpi fondamentali di universalità, uguaglianza ed equità sono stati traditi, con conseguenze che condizionano la vita delle persone, in particolare delle fasce socio-economiche più deboli e delle persone residenti nel Mezzogiorno”. Parole gravi che confermano le difficoltà cui sono costretti tutti coloro che subiscono i lunghissimi tempi di attesa, l’affollamento dei pronto soccorso, la migrazione dal sud al nord, o chi, addirittura, deve rinunciare alle cure perché non può sostenerne il costo. Secondo la nostra Costituzione, “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. E’ pensabile garantire tutto questo e nel contempo essere ultimi, fra i paesi del cosiddetto G7, rispetto agli investimenti in sanità? Nel 2023 il rapporto spesa sanitaria/PIL (prodotto interno lordo) è stato del 6,3%, con una spesa – in termini assoluti- di 131.103 milioni di Euro. Va ricordato che nel 2022 il suddetto rapporto era stato del 6,7%, senza contare la crescita dell’inflazione che, l’anno scorso, ha inciso ulteriormente in senso negativo. Nel 2024, secondo le previsioni, il rapporto spesa sanitaria/PIL dovrebbe essere del 6,4%. Apparentemente ci troveremmo di fronte a un piccolo passo avanti, sia pure inadeguato a dare una scossa positiva al nostro servizio sanitario nazionale. Purtroppo, come afferma sempre Cartabellotta, tale incremento “è illusorio: infatti, in parte è dovuto ad un mero spostamento al 2024 della spesa prevista nel 2023 per i rinnovi contrattuali 2019-2021, in parte agli oneri correlati al personale sanitario dipendente per il triennio 2022-2024 e, addirittura, all’anticipo del rinnovo per il triennio 2025-2027.

approfondimenti su ArgoCatania

 

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