Alla casa internazionale delle donne di Roma si è svolto l’evento conclusivo del progetto “Diaspore resistenti”  il 13 dicembre,  progetto che intendeva far dialogare tra di loro le diaspore delle donne ucraine, afghane, iraniane e palestinesi che vivono nel nostro paese. 

“In realtà le emigrazioni delle donne sono diaspore resistenti e sono strategie di libertà; nella gran parte dei casi sono l’espressione di una ricerca di protagonismo autonomo; autonomo sia dal mondo maschile sia dalle società di origine” così afferma Chiara Bergamini, project manager e su questa linea continua la magistrata Maria Grazia Giammarinaro: “Questo progetto e il suo rapporto finale, ci dà l’immagine di un protagonismo, di donne attive e di donne attiviste, purtroppo devo dire che questa immagine non è rispecchiata nel mainstream del discorso internazionale sulle donne dove invece prevale la narrazione vittimistica, quella che presenta le donne esclusivamente come vittime, con alcune eccezioni che voglio segnalare, ad esempio, le raccomandazioni del “Comitato per l’eleminazione di ogni forma di discriminazioni contro le donne” (Cedaw). Vi cito soltanto.la raccomandazione generale numero 26 sulle Women migrant workers e la 35,  pietre miliari di un discorso che ha recepito lo sguardo femminista”. 

La riflessione continua sulla figura della migrante in Italia: “Da studiosa dell’immigrazione ho sempre considerato il migrante una risorsa, un agente di sviluppo” a parlare è Patrizia Sterpetti coordinatrice del progetto “il migrante è una persona in grado di creare un legame, una progettualità, tra la sua zona di provenienza e dove si trova a vivere, in quella che chiamiamo una cooperazione decentrata”. Sulla questione delle diaspore Patrizia Sterpetti che è anche presidente di Wilpf Italia ( Lega internazionale delle donne per la pace e la libertà) trova una felice convergenza tra questo progetto e l’operato di Wilpf che al tavolo del Piano Nazionale “Donne per la pace e la sicurezza” ha fatto inserire, con ben quattro punti, la possibilità che le associazioni delle diaspore vengano assunte come ambasciatrici e possano regolarmente fare incontri con il ministero degli Affari Esteri. 

Ma ritorna il problema spinoso dell’accoglienza e a sottolinearlo è di nuovo Patrizia Sterpetti: “Già in passato mi è capitato di occuparmi di  rifugiati e migranti e il primo aspetto che è emerso in tantissime comunicazioni delle donne è l’oggettiva inadeguatezza in Italia rispetto al tema dell’accoglienza. C’è una continua improvvisazione, una mancanza di competenze, di metodologia che crea spesso sofferenza e incomprensioni. Questo paese non accetta di  assumere la questione dell’accoglienza come un fatto strutturale che richiede risorse, richiede competenze sofisticate. Invece è considerato una fatica, i rifugiati e gli immigrati sono considerati solo immigrati economici”. L’obiettivo è fare in modo che i servizi siano sempre suscettibili di perfezionamento;  non è solo lo straniero a dover fare lo sforzo di comprendere il sistema, ma è anche il sistema che dev’essere in grado di venire incontro allo straniero e alla straniera. Non dobbiamo dimenticarci che i debitori di doveri in realtà sono creditori di diritti. Su una posizione analoga è Chiara Bergamini project manager: “C’è la necessità di un ripensamento radicale, profondo, delle politiche europee e italiane a tutelare le donne e in particolare le donne coinvolte nei flussi forzati. Politiche che partano dall’assunto che la violenza di genere è forse il principale strumento con cui le donne vengono controllate e soggette a trattamenti discriminanti. Le donne sono esposte al rischio di tratta e il rischio di tratta aumenta proprio nei paesi, nei contesti dove ci sono più discriminazioni verso le donne. Dobbiamo aggiungere che le politiche di esternalizzazione delle frontiere rischiano, nei confronti delle donne, di produrre una ri-vittimizzazione. Infatti, dopo aver subìto la tratta, spesso arrivate in Italia, non vengono riconosciute come tali e possono essere espulse con rimpatrio assistito. Una volta rientrate nei paesi di origine, si trovano esposte nuovamente a condizioni di subalternità verso i trafficanti”. Bergamini come pure la magistrata Giammarinaro, ambedue sottolineano: “Le politiche di esternaliizzazione delle frontiere di fatto stanno diventando un ulteriore strumento di esclusione delle donne al diritto d’asilo. Le donne straniere che richiedono asilo pur essendo presenti nei nostri territori esprimendo soggettività attive e forti rischiano di rimanere una presenza assente, cioè una presenza che prova ad affermare la sua esistenza ma che viene ignorata poi sostanzialmente dalle politiche e in parte anche dalla società”. La magistrata Giammarinaro che si è interessata di trafficking internazionale allarga il discorso: “ La tratta è una delle più orribili violazioni dei diritti delle donne, e anche se ci riporta verso lo stereotipo della vittimizzazione nel mio operato ho cercato di mostrare che nella lotta alla tratta e nei percorsi di uscita dalla tratta è essenziale il protagonismo femminile”. Tale è la forza dello stereotipo della donna come vittima che “Spesso le donne sono costrette a dissimulare, sono costrette a cammuffarsi da vittima, perché mostrare la loro agency, il loro protagonismo, potrebbe squalificarle dalla considerazione delle istituzioni, agli occhi delle istituzioni, non sarebbero più delle vere vittime, ma sarebbero persone che vogliono regolarizzare la loro situazione”. 

La magistrata Giammarinaro e la presidente di Archivia Loretta Bondì sono d’accordo nell’osservare: “Oggi la libertà femminile è sotto attacco, dappertutto, ovviamente in vari modi, in forme diversissime,  basta pensare alla decisione della Corte suprema  americana che ha abolito la copertura costituzionale del diritto di aborto, basta vedere che cosa avviene in certi paesi dell’Unione Europea in materia di aborto, basta vedere come avanzano certe destre estreme in tutta Europa e all’interno dell’Unione Europea, anche nel governo italiano. Dobbiamo sapere che Dio-Padre-Famiglia significa il rilancio del ruolo tradizionale che il patriarcato ha assegnando alle donne, di trasmissione dei valori tradizionali, quindi del mancato riconoscimento dei loro diritti individuali”.

Loretta Bondì, presidente di Archivia presso la Casa Internazionale delle donne di Roma, ricorda che il punto di partenza del progetto è stato l’osservare che: “Mentre le advocacy individuali delle diaspore erano molto efficaci, non entravano in dialogo con le istanze di altre diaspore e ci siamo chieste se non ci fosse per caso del valore aggiunto nel favorire una contaminazione di esperienze tra diaspore diverse. Attraverso un meccanismo che è molto femminista dell’auto- mutuo- aiuto abbiamo pensato si potesse non solo rafforzare le advocacy individuali ma anche rafforzare la voce delle singole diaspore nel dialogo verso le istituzioni internazionali e verso i loro stessi paesi. Questo criterio iniziale poi effettivamente ha dato degli ottimi risultati perché certe diaspore non si erano mai parlate prima, semmai lo avevano fatto in maniera occasionale, e qui hanno trovato invece un terreno fertile di scambio di esperienze, di contaminazione di esperienze”. Le diaspore vanno potenziate anche per un altro motivo, continua Bondì, perché fanno da deterrente all’oblio. Oggi noi passiamo da una crisi all’altra e ogni crisi determina l’oblio di quella che l’ha preceduta, le diaspore invece remano in direzione contraria, continuano a mantenere se non alta, almeno presente, l’attenzione su quanto è accaduto nel loro paese, come è successo appunto con le donne afghane, iraniane, ucraine e palestinesi presenti in Italia.