“Mi ha fatto male, certo, come può succedere tutte le volte che le persone parlano senza conoscere. Io non parlerei mai di fisica e lui non può parlare di cose di cui non sa nulla. Purtroppo ha voluto personalizzare, facendo una cosa violenta e ad personam e abusando del mezzo pubblico”: così il ministro Guido Crosetto, chiamato in causa da Carlo Rovelli il Primo Maggio (senza chiedere permesso, come usavano una volta i sovversivi).

Per la verità, Rovelli ha detto qualcosa di così banale, che l’aveva detto lo stesso Crosetto: che sarebbe inopportuno un Ministro della Difesa che lavora per Leonardo (per la precisione: presiedeva la Federazione Aziende Italiane per l’Aerospazio, la Difesa e la Sicurezza di Confindustria, e Orizzonte Sistemi Navali, società specializzata in sistemi ad alta tecnologia per le navi militari e di gestione integrata dei sistemi d’arma controllata al 51% da Fincantieri e al 49% da Leonardo). Dalle presidenze Crosetto si è dimesso: non dall’inopportunità. Inopportuno, per capirci, come quando l’ammiraglio Di Paola fu nominato Ministro della Difesa nel governo Monti: ai tempi, Enrico Mentana non ebbe problemi a esplicitare il proprio dissenso; lo stesso Mentana che oggi dissente da Rovelli.

Rovelli è un fisico, e dovrebbe, dicono in tanti, occuparsi di quello che sa: continui a scrivere libri di fisica, e lasci stare la politica. Senonché il primo libro pubblicato da Carlo Rovelli non è un libro di fisica, ma un libro politico: quel Bologna marzo 1977 … fatti nostri … (Bertani 1977) che ricostruiva e documentava l’assassinio di Francesco Lorusso e la rivolta che ne seguì, curato assieme a Enrico Palandri, Maurizio Torrealta e Claudio Piersanti. Così come non è improvvisata la sua militanza pacifista, che lo portò a farsi arrestare per renitenza alla leva: disobbedendo al “dovere” di indossare la divisa con l’obiezione di coscienza, come molti altri della sua generazione – uno fra tutti, quel Valerio Minnella del quale in questi giorni esce l’autobiografia.

Militanza pacifista sulla quale fino a ieri nessuno aveva alcunché da osservare: neanche quando, nel dicembre 2021, Rovelli ha promosso l’appello di 50 premi Nobel per il taglio del 2% delle spese militari per finanziare la lotta a epidemie, riscaldamento globale e povertà estrema. Insomma, quella definizione spregiativa tanto usata e abusata – pacifinto – a Rovelli sembra difficile appiopparla. Mai dire mai, però: è bastata una sua battuta ironica sulla seconda guerra mondiale, per essere accusato di “mettere in dubbio il carattere di lotta di liberazione della nostra guerra partigiana” da un giornalista di linkiesta – testata non di primissimo piano, ma assurta immediatamente a fonte storica da parte di qualche navigato (e socialnavigante) storico. Eppure Rovelli riusciva, in quell’intervento, a colpire in una sola battuta tre bias cognitivi di chi chiacchiera di storia sui social come ieri lo si faceva in ascensore o al bar: la cancellazione (meglio: la forclusione) della partecipazione alla guerra d’invasione dell’esercito fascista al fianco di quello nazista, facendo coincidere l’intera guerra con la Resistenza; l’uso disinvolto del “noi” – “la nostra guerra di liberazione”, che trasforma un evento storico in un fatto memoriale, come scrive con penna affilata Francesco Filippi nella sua Guida semiseria per aspiranti storici social; e la falsa rappresentazione delle guerre come tornei cavallereschi nei quali i cattivi sono tutti di là, e quelli di qua, per il solo fatto di non essere là, non possono che essere buoni – e pazienza se anche i “buoni” compiono delle atrocità, come le requisizioni annonarie britanniche nel Bengala, che causarono 4 milioni di morti per carestie, o l’atomica su Hiroshima e Nagasaki.

La si potrebbe finire qui: se il ministro Crosetto non ci avesse messo il carico da undici, con due affermazioni che fondono insieme ignoranza e fascismo – cosa ancora più grave per uno che fascista esplicito non lo è mai stato: ma il fascismo non è solo un’ideologia, è anche uno stato mentale, un costume, un ethos.

“Io non parlerei mai di fisica”, dice il ministro: replicando, non è chiaro con quanta consapevolezza del senso del ridicolo, una gag di Nanni Moretti. Si potrebbe rispondere al ministro che la fisica è complessa, e complessi sono i libri di Carlo Rovelli: alcuni dei quali richiedono conoscenze di alto livello. Nondimeno, Rovelli da anni è impegnato in un’opera di scrittura nella quale coniuga l’accessibilità del linguaggio con l’alto livello teoretico: libri che non si possono definire divulgativi, e che però circolano nel grande pubblico; libri che uno studente della scuola secondaria è in grado di leggere – e infatti accade che li legga. Studentesse e studenti nella mia scuola lo fanno. Ignorare la fisica è una colpevole ignoranza: come ogni altro sapere, la fisica – per chi non inorridisce davanti a qualche simbolo o formula – è uno dei modi di studiare il mondo, e attraverso il mondo la nostra stessa mente; per chi non si è fermato alle interrogazioni del cattivissimo prof del liceo, è uno scrigno pieno di tesori – fra i quali nuove, inattese e sorprendenti modalità di relazione fra “cose”. È un esercizio del rapporto che c’è fra lo studio del mondo e il tentativo di cambiarlo, il mondo: storia vecchia, che immagino vada poco di moda nei circoli padronali frequentati dal ministro Crosetto.

In verità Crosetto, col suo gesto che tiene platealmente a distanza le conoscenze della fisica, solletica un vezzo comune dell’italiano medio, che non sa di matematica, fisica, scienza, e se ne fa vanto. Dove per “italiano medio” si intende una categoria dello spirito nazionale, della quale sono partecipi anche molti sedicenti intellettuali, beninteso fieramente umanisti: basterà ricordare il disprezzo con cui certa critica letteraria accolse Paolo Giordano, colpevole di aver scritto un romanzo pur essendo un ricercatore di fisica. Quello di solleticare, blandire, scimmiottare l’ignoranza è un tratto caratteristico del fascismo: movimento politico fondato, va ricordato, da un uomo la cui cultura coincideva con l’ultimo libro letto.

Al nutrimento dell’humus dell’ignoranza si accompagna un altro, più evidente tratto: l’autocompiacimento del proprio ruolo gerarchico, che non ammette e non tollera la voce dell’opposizione. Il sintagma “quando sarà al mio posto” è sempre sottinteso da chi rivendica il diritto di non essere criticato. Non c’è bisogno di conoscere Foucault: basterebbe aver sleggiucchiato il Kant di Che cos’è l’illuminismo? (che sarebbe doveroso, per chi si ammanta di liberalismo) per comprendere che invece è vero il contrario: i governati hanno il diritto di criticare i governanti, perché tale è il ruolo della critica politica. Porre limiti all’esercizio del potere, metterlo in discussione, ricostruirne la genealogia, scavare nella sua storia con la ferma prudenza dell’archeologo, per determinare cosa rende il potere tale, in vista di un suo superamento: tutto questo ha un nome, e questo nome è l’impazienza della libertà.

“Chi sa parlare parli, chi sa suonare suoni, chi ha idee le dica, chi sa scrivere scriva, chi sa organizzare organizzi, chi sa fare di più, faccia di più”: in una battuta, chi ha il coraggio del sapere lo eserciti – per indagare l’infinitamente piccolo che si annida nell’infinitamente grande dell’universo, o l’infinitamente grande che si annida nell’infinitamente piccolo del quotidiano.

pubblicato anche su EuroNomade