Sul reportage “Fiori di Campo” di Marina Galici e l’integrazione delle comunità rom dedicato al  campo della Favorita di Palermo – Esposizione all’Archivio Storico panormita 

 

Il tema delle comunità rom è sovente oggetto di narrazione fotografica, con approcci diversi e nel segno particolare delle sensibilità degli autori. La cultura di queste minoranze che ai più appare monolitica e impenetrabile in realtà affonda le radici un pò ovunque, frastagliandosi in una galassia di comunità caratterizzate solo parzialmente nelle origini e nell’etnia e, invece prevalentemente, nella relazione difficile che nel tempo a lungo termine  hanno dovuto intrattenere con i gruppi ospitanti. Nel caso specifico della narrazione dei campi rom le rappresentazioni e le immagini prodotte si alimentano anche di un repertorio che comprende stereotipi e pregiudizi. I cerimoniali, i costumi, i segni della condizione materiale ed esistenziale ghettizzata nei campi costituiscono in generale la traccia prevalente dei reportage fotografici, utili per orientarne una fruizione possibile. Il repertorio di immagini sulle comunità rom nella comunicazione pubblica funziona perché nello spettatore si produce un senso di estraneità e di allontanamento, un’esperienza altra, una sorta di alterità dello sguardo, protettiva e rassicurante.  

Il reportage fotografico Fiori di Campo di Marina Galici, dedicato alle comunità rom del campo della Favorita di Palermo, in esposizione sino al 23 Aprile all’Archivio storico di Palermo, non si colloca nel genere della fotografia sociologica o culturale.  E’ un progetto autoriale, unico, che assume un valore straordinario per due aspetti peculiari strettamente intrecciati:
-la cifra documentaria, in quanto testimonia quasi un decennio esistenziale di vita comunitaria rom all’interno di uno dei campi-ghetto più famosi e più vecchi d’Italia, istituito nel 1990 e sgomberato nel 2019;
-la capacità e la sensibilità rara, espressa dall’autrice di operare una genealogia dei legami tra i membri del gruppo, restituirci un senso originario di appartenenza alla comunità in un momento in cui l’epoca dell’immagine del mondo richiede una permanente esposizione del corpo, l’amplificazione di ogni scena sociale a fini sensazionalistici. 

Nel reportage di Marina Galici le donne, i bambini, gli adolescenti, la complicità mai solo umana, né troppo umana (parafrasando Nietzsche), si trasformano nel gioco di una rappresentazione che si svincola dai generi fotografici e si apre negli archetipi universali, accessibili a tutti e in ogni cultura. Il suo campo è un’opera aperta, rivive dentro i nostri vissuti parentali, stimola sentimenti di amicizia tra i popoli, restituisce piena dignità ai soggetti che si espongono volontariamente allo sguardo del fotografo. Attraverso ogni immagine coltiviamo con abbandono piccoli scatti di affrancamento dai nostri punti di vista.


Nell’ambito della rassegna Anno Zero che ha ospitato Fiori di Campo, promossa dal Collettivof di Palermo, si è svolto un interessante talk sul tema “Il campo come incontro/scontro di codici comunicativi”. Al talk hanno partecipato oltre che Marina Galici, due esperti dell’Università degli Studi di Palermo, Michele Mannoia (docente di Sociologia dei Processi Culturali) e Elisabetta Di Giovanni (docente di Antropologia Sociale) ai quali  abbiamo posto alcune domande.

 

Perché sul tema comunità rom si incontra tanta resistenza nei media generalisti nonostante la sottoscrizione della Carta di Roma inviti ad utilizzare un lessico eticamente corretto?

Mannoia: La notizia non nasce dal nulla. Nasce dalla precisa volontà di individuare un nemico. L’antiziganismo italiano è alimentato dal modo in cui i media trattano le informazioni che riguardano i Rom. Quando le notizie riguardano i Rom come protagonisti negativi allora viene enfatizzata la loro appartenenza alla comunità romanì; quando i Rom sono vittime, invece, o le notizie non vengono pubblicate, oppure vengono riportate con una enfasi di gran lunga minore. Sarebbe fuorviante imputare agli operatori dell’informazione la responsabilità assoluta di questa distorsione delle informazioni che riguardano i Rom; tuttavia non vi è dubbio che essi abbiano una parte di responsabilità. Il problema rimanda non solo al nesso, tanto nefasto, quanto indissolubile, tra il ceto politico e la stampa italiana, ma anche al tema della professionalità degli operatori  dell’informazione, maggiormente propensi a fare notizia, piuttosto che a cercare verità. Molti di loro, per ragioni dovute all’estrema compressione dei tempi redazionali e produttivi tendono ad una reiterazione a-problematica di modelli altamente stereotipati di narrazione, contribuendo in tal modo a reificare processi di inferiorizzazione nei confronti del popolo rom.

 

Lo sgombero riduce il tema dell’integrazione delle minoranze rom ad una questione di ordine pubblico. Perché ancora oggi le amministrazioni non intraprendono altri percorsi?

Mannoia:  Perché se non lo facessero scatenerebbero la guerra dei poveri contro i poveri e le amministrazioni sarebbero costrette ad affrontare la rabbia dei cittadini locali, pagandone un prezzo elevato in termini di risultati elettorali. Più di recente, la strada della fuoriuscita dai campi è stata intrapresa da alcune amministrazioni avvedute e sembra che stia producendo, pian piano, alcune buone pratiche in termini di housing sociale e di inserimento delle persone rom nel contesto sociale. Il vero passaggio sarebbe quello di trasformare la fantomatica “questione rom” in una questione sociale, in una questione che superi quella visione culturalista che ancora caratterizza la retorica pubblica. I dati mostrano come abitare in un alloggio dignitoso abbia ricadute positive sia sulla frequenza scolastica degli allievi rom, sia sulle relazioni amicali di questi ultimi con i membri della popolazione maggioritaria.

 

La percezione sociale delle minoranze rom in Italia è cambiata negli ultimi anni?

Mannoia: Se per percezione intendiamo quella della gran parte della popolazione, rispondo dicendoti che questa non è cambiata. L’antiziganismo è più forte che mai. È ancora oggi, tanto quanto negli anni precedenti, robusto e difficilmente scalfibile. Resiste anche di fronte alla dimostrazione del contrario. Luoghi comuni, stereotipi e leggende metropolitane continuano a circolare alimentate anche dai rappresentanti istituzionali e dai mass media che finiscono con il veicolare tali leggende, legittimando quegli slogan che tutti noi conosciamo.

 

L’esperienza del campo di Palermo è stata metabolizzata dai cittadini, ha generato qualche circuito virtuoso?

Mannoia: Purtroppo, temo di no, almeno in termini generali. I circuiti virtuosi si sono generati soltanto per quei pochi fortunati che sono entrati davvero in contatto con le persone rom. In questi casi, la conoscenza reciproca ha abbattuto il muro della diffidenza e della distanza sociale. Per questa ragione, sono convinto che l’inserimento abitativo potrà migliorare le relazioni tra i gagè (i non Rom) e i Rom. Nei contesti in cui i Rom vivono in alloggi decenti, le relazioni con il vicinato, con il territorio e con il quartiere sono di gran lunga positive.

 

Più recentemente la ricerca sociologica quali aspetti sta indagando?

Mannoia : Personalmente, sto provando ad indagare sugli aspetti meno conosciuti della cultura romanì, sugli episodi di genuino inserimento nel contesto sociale, sulla ricchezza di una cultura millenaria e sulle diverse e multiformi anime che compongono questo universo. Detto in altro modo, dovremmo superare l’immagine folkloristica che spesso diamo dei Rom e fornirne una, ben più realistica, che tenga conto del fatto che la storia dei Rom è storia di intrecci, di contaminazioni, di relazioni con le persone e con la società italiana ed europea. Bisognerebbe cioè evitare di etnicizzare e parlare piuttosto di multidimensionalità delle identità individuali.

 

I codici culturali e comunicativi nelle comunità rom. Quali sono le interferenze più significative rispetto alla cultura locale? E come è stata percepita nel tempo la comunità palermitana?

Di Giovanni: Le culture sono un magma e, come spesso avviene, i codici culturali si mescolano e si contaminano; le comunità rom palermitane hanno da sempre percepito un’appartenenza con la città di Palermo, oltre a quella del loro gruppo etnico, a livello religioso, così come linguistico.

 

Negli anni della permanenza di gruppi diversi nel campo della Favorita sono emersi conflitti interni? E da punto di vista del dialogo religioso?

Di Giovanni: Le tre comunità rom del campo della Favorita hanno sempre convissuto pacificamente; tuttavia, non sono mancati episodi di piccoli conflitti dettati soprattutto dalla povertà e dalle condizioni di forte disagio.

 

L’esperienza del campo di Palermo è da considerare disastrosa o ci sono aspetti positivi?

Di Giovanni: In generale il campo rappresenta un ghetto, sia esso uno stanziamento abitativo formale o informale. Sin dagli anni ’60 del XX secolo, i campi nomadi hanno costituito l’emblema fisico della segregazione etnica e della non inclusività. La presenza delle comunità rom, così come quella di altre comunità, rappresenta una ricchezza sotto tanti profili.

 

La ricerca antropologica sul tema delle minoranze rom quali aspetti, più recentemente, sta indagando? 

Di Giovanni : La ricerca socio-antropologica è sempre stata attenta a molteplici aspetti: dall’inserimento scolastico alle forme di tradizioni culturali, dalle dinamiche di inclusione sociale alle credenze religiose.