Quando feci il servizio di leva, ormai nel lontano 1975, l’M47 era un vecchio carro armato di fabbricazione statunitense in disuso, soppiantato dal tedesco Leopard, molto più veloce ed efficiente.

Se ora scrivo M49 chi legge penserà che mi riferisca a un nuovo e micidiale tank, ma si sbaglierebbe. Infatti questa fredda e anonima sigla non è il nome né di un mezzo militare, né di un codice di qualche servizio segreto, ma il “nome” che un  ineffabile umano ha deciso di affibbiare a un orso.  Anzi, a quell’orso che per alcuni mesi ha fatto parlare di sé perché vittima di un “progetto” che prevedeva il suo inserimento nei boschi trentini, salvo poi fare una frettolosa retromarcia di fronte ai timori che il nuovo ospite aveva provocato tra le orde di turisti che affollano il territorio in questione.

Da qui la chiusura in gabbia, che provocò la sacrosanta reazione di movimenti e associazioni animaliste e antispeciste e del locale centro sociale “Bruno” il cui nome e logo si rifà proprio all’orso che fu ammazzato in Baviera anni fa.

M49 è evaso dalla prigionia, ribattezzato con stupidità umana “Papillon”, per poi essere ripreso e di nuovo rinchiuso in una gabbia. Una scelta con cui gli umani hanno una nota dimestichezza, visti i tanti recinti, gabbiette, loculi vari, in cui segregano i non umani, miliardi che quotidianamente sono maciullati, annientati, ghettizzati dalla nostra specie, in nome del profitto e dello sfruttamento più biechi.

La vicenda di M49 è ora raccontata in un aureo libretto pubblicato dalla casa editrice Ortica, marchio editoriale che da tempo dedica un meritorio spazio alla tematica, opera di uno dei più autorevoli rappresentanti dell’antispecismo, Massimo Filippi, autore di numerosi saggi sull’argomento. Ricordiamo per tutti il fondamentale  “Crimini in tempo di pace” scritto insieme a Filippo Trasatti.

“M49” sottotitolo “Un orso in fuga dall’umanità”, 118 pagine, euro 10, non può essere semplicemente catalogato nella categoria “saggi”, anzi possiamo dire che forse non lo è, o lo è parzialmente.  Nel narrare l’odissea del protagonista della storia, assume spesso, soprattutto nell’avvolgente terza parte, l’aspetto di un canto, una specie di “Cantico dei cantici”, dove però traspare l’irriducibile amore verso chi dalla notte dei tempi subisce la sopraffazione dalla specie che si è eretta a dominatrice del pianeta.

http://www.orticaeditrice.it/

E per questo si parla di un orso in fuga dall’umanità. Ma Filippi inquadra subito di che umanità si parla descrivendola efficacemente: “bianca, maschile ed eterosessuale, cisgender, abile e cognitiva, onnivora, proprietaria ed energivora”.

Corredato dai bei disegni di Andrea Nurcis, il libro si articola in tre capitoli: nel primo è l’io a prevalere, cioè a parlare è l’orso, nel secondo si passa al tu, dove è un umano o umana a rivolgersi a lui, con animo e passione  solidale, mentre nella terza e ultima parte è il “si” a emergere, un “neutrale”, in realtà mai tale, come si ricorda citando Roland Barthes. Se si “potesse parlare di soggetto, un multiforme, mutaforma”, potremmo anche definirlo una “pluralità irrappresentabile”, un terzo capitolo dove una scrittura  senza fine esplicita un desiderio “con/diviso e aggrovigliante”.

Perché come Massimo Filippi ci dice subito, materia del testo è il desiderio, anzi dei desideri: quello di un orso, anzi di “unorso” simbolo del mondo non umano vessato, di essere libero perché “mangio, bevo, corro, sogno, penso, lascio tracce e le cancello, mischio finte tracce, mi nascondo, ruglio di rabbia…”, di un orso a cui l’autore ad un certo punto dà il nome di “Tra”, in quanto “Moltitudine”.  Una scelta, una risposta al “gesto arcaico e violento, di assegnare una sigla a un essere vivente, sensibile, pensante, come marchio anonimo e impersonale. Ma il nome M49  viene poi rilanciato, rivendicato come emblema di altri, che si sono visti dare come nome una sigla – M57, M11, KJ2… – ”testimoni innocenti” di una società plasmata sullo sfruttamento, anzi sugli sfruttamenti, all’interno della specie umana e verso le altre specie e verso la natura.

Non si tratta di chiedere l’abolizione della carceri, della schiavitù, delle morti fredde su scala industriale e per rimanere nella drammatica quotidianità delle nostre coste, delle stragi in mare, ma di “pensare all’abolizione di una società che sulle carceri, la schiavitù, le morti fredde e industriali si regge”.

Un libro quindi contro l’antropocentrismo e anche contro l’antropomorfismo, anche se poi in qualche modo l’autore cade nella contraddizione di parlare per conto di M49, aporia che spiega con le parole di Deleuze, perché si “scrive sempre per gli animali”. Ma si scrive, e questo lavoro di Massimo Filippi è un nuovo contributo a questa fondamentale battaglia, non solo e non tanto politica, ma soprattutto culturale, per far capire l’importanza della questione,  anche a chi dentro ai movimenti ancora sottovaluta una tematica non separabile da qualunque percorso di emancipazione e liberazione, umana e non umana.