La storia umana, così come ci viene insegnata, ci racconta che durante il periodo evolutivo, o Antropogenesi, l’essere umano sia passato attraverso una serie di modificazioni che hanno affinato la razza fino ad arrivare alla specie attuale.

Una stima dell’università della Pennsylvania, basata sui dati del telescopio spaziale Kepler della NASA (vedi immagine qui sotto), messo in orbita il 7 marzo 2009, afferma che nella Via Lattea potrebbero esserci fino a 10 miliardi di “sosia” della Terra.

È una informazione statistica, ovviamente, ma se la si applica all’Algoritmo di Green Bank, o Equazione di Drake, provate a fare una stima di quante possibili civiltà extraterrestri potrebbero popolare la nostra Galassia.

A fronte di questa scoperta, proviamo a dare una risposta che sia legata al buonsenso e ad un pizzico di matematica statistica per rispondere alla fatidica domanda; Siamo soli nell’universo?

Alzi la mano che non si è mai posto questa domanda almeno una volta nella vita soprattutto in quelle calde sere estive dove, per trovare un po’ di fresco e di tranquillità, ci stendiamo in riva al mare o sul prato dietro casa ad ammirare il cielo.

A questa domanda, ha cercato di rispondere nel 1961 l’Astronomo ed Astrofisico Frank Drake, che ci ha lasciato solo pochi mesi fa, formulando quello che è diventato l’algoritmo di “Green Bank”:

N = R* × f p × n e × f l × f i × f c × L

Dove

N = numero di possibili civiltà presenti nella nostra Galassia;
R* = tasso medio annuo di formazione di nuove stelle nella Via Lattea;
fp = frazione di stelle che possiedono pianeti;
ne = numero medio di pianeti per sistema planetario in condizione di ospitare forme di vita;
fl = frazione dei pianeti ne su cui si è effettivamente sviluppata la vita;
fi = frazione dei pianeti fl su cui si sono evoluti esseri intelligenti;
fc = frazione di civiltà extraterrestri in grado di comunicare;
L = stima della durata di queste civiltà evolute.

Ovviamente ad oggi N=1 (dove il risultato corrisponde alla Terra), ma a fronte del fatto che Kepler abbia potenzialmente trovato un numero così grande di possibili candidati il risultato potrebbe variare.

È vero che il fatto di essere come la Terra non determina in assoluto che siano abitati da esseri senzienti ed evoluti, o che siano adatti alla vita come la intendiamo noi.

Per esempio è importante la zona orbitale, ovvero una fascia posta ad una distanza dall’astro, che non sia troppo vicina per renderlo inabitabile per il calore, ma nemmeno troppo distante poiché troppo freddo.

Tutto dipende molto da quanto la stella è grande e da quanto questa sia “fredda”.

Però capite che, se anche l’1% di essi fosse esattamente come la Terra, il risultato sarebbe comunque elevato.

In effetti, in questi ultimi anni, è stato trovato non un pianeta, ma un Astro che si può considerare il “Gemello” del nostro Sole.

Fig. 1 – Telescopio astronomico Kepler, foto della NASA

La gemellarità “stellare”, anzi, pare sia più frequente che non la gemellarità planetaria, essa non è solo derivante da fattori estrinsechi, quali la dimensione, la luminosità, la posizione nella Galassia, ma bensì da alcuni fattori intrinsechi quale ad esempio la sua “firma chimica” che la definisca appartenente allo stesso “creatore” cosmico, ma non solo, anche la data di nascita deve essere ovviamente la stessa.

Il gemello del nostro Sole, lontano da noi 184 anni luce, ha un nome impronunciabile poiché è in codice: HD 186302, ma la caratteristica saliente è che la sua carta di identità “spettrale” la rende compatibile con il nostro Sole secondo quanto detto in precedenza.

L’idea di base, di una tale ricerca, è quella di valutare la possibilità che, se sono nate dalla stessa “Nursery”, anche ciò che le orbita intorno potrebbe avere le caratteristiche planetarie del nostro Sistema Solare.

Questa teoria sta perciò concentrando l’attenzione su alcune anomalie che rivelerebbero, in modo indiretto, la presenza di pianeti nella sua orbita.

Se uno o più di questi ultimi fossero rocciosi e posti nella sua suddetta “fascia di abitabilità” potrebbero essere atti a sostenere la vita.

Resta il fatto che oggi abbiamo molte più informazioni a riguardo delle caratteristiche planetarie necessarie per permettere lo sviluppo biologico della vita (attenzione ribadisco, se non fosse stato chiaro nelle prime righe di questo articolo che non parlo necessariamente di una forma umanoide).

Inoltre l’alta quantità di Esopianeti “osservabili” o presunti, ha nuovamente appassionato l’interesse per la vita extraterrestre.

Gli ultimi pianeti rintracciati sono a circa 40 anni luce dalla Terra e praticamente dietro l’angolo, se prendiamo in considerazione le dimensioni della nostra Galassia.

Non arriva a caso, quindi, uno studio condotto poco tempo fa da David Kipping, scienziato del dipartimento di astronomia della prestigiosa Columbia University.

Il lavoro dell’astronomo, pubblicato su Proceeding of the National Academy of Sciences, è molto articolato e si basa sulla Inferenza Bayesiana.

L’Inferenza Bayesiana è un metodo di analisi statistica che viene applicata, in questo caso, per ipotizzare quale sia la possibilità di una vita extraterrestre di evolversi e diventare complessa come sulla Terra.

Questo nuovo metodo sembra surclasserà l’algoritmo di “Green Bank” essendo più preciso, anche se anche quest’ultimo si basa su caratteristiche statistiche, ovviamente.

Ma prima di andare avanti cerchiamo di capire cosa sia l’Inferenza.

Con Inferenza Statistica o Statistica Inferenziale, si definisce il procedimento di studio delle caratteristiche di una popolazione utilizzandone una parte “a campione”.

Il suddetto “campione” è organizzato secondo una scelta dei componenti per mezzo di un sistema casuale di selezione.

Il “campione” viene poi studiato applicando algoritmi matematici atti a valutare il processo di apprendimento tramite l’esperienza.

Il metodo coinvolge il calcolo probabilistico, anche se la casualità iniziale tende ad evolversi grazie alla “esperienza” lentamente acquisita dal campione stesso nel tempo.

Per lo studio attuale, si applica l’Approccio di Bayers, o “Teorema della Probabilità delle Cause”, sviluppato verso la metà del 1700 dal reverendo Thomas Bayers.

Egli aveva accorpato due teoremi della matematica statistica: il Teorema della Probabilità Composta e il Teorema della Probabilità Assoluta.

Secondo l’Inferenza statistica Bayesana la probabilità di un’ipotesi si aggiorna quando sono presenti nuove prove o informazioni, ovvero con l’aumentare della disponibilità di questi dati, il grado di fiducia nell’ipotesi cambia.

Da studi sui reperti geologici, sappiamo che la vita sulla Terra è iniziata in modo relativamente molto rapido appena l’ambiente divenne abbastanza stabile da sostenerla; ma sappiamo anche che, viceversa, quel primo organismo multicellulare ha impiegato molto più tempo per evolversi: circa 4 miliardi di anni.

Secondo quanto detto in precedenza, Kipping ha sviluppato l’ipotesi della probabilità della vita e dell’intelligenza con quattro possibili risposte:

  • la vita è comune e spesso sviluppa intelligenza,

  • la vita è rara ma spesso sviluppa intelligenza,

  • la vita è comune e raramente sviluppa intelligenza,

  • la vita è rara e raramente sviluppa intelligenza.

Applicando le formule matematiche Bayesiane lo scienziato è arrivato alla conclusione che lo scenario di vita comune è almeno 9 volte più probabile di quello raro.

Una deduzione derivata dal fatto che la vita sulla Terra sia emersa “solo” 300 milioni di anni dopo la formazione degli oceani, quindi molto rapidamente.

Kipping ne conclude che se un pianeta ha condizione simili a quelle della Terra non dovrebbero esserci problemi alla creazione spontanea della vita.

Altra faccenda, invece, per quanto riguarda l’ipotesi che queste vite extraterrestri possano essere complesse o intelligenti, dove le probabilità sarebbero 3:2 a favore della vita intelligente, ovvero poco più del 50%, questo perché l’Umanità è comparsa relativamente tardi rispetto alla finestra abitativa della Terra e quindi il suo sviluppo non è stato un processo facile e tale da fornire una garanzia per la sua ripetizione.

Si tratta, ovviamente, di analisi che si basano sull’unico modello che abbiamo ovvero il nostro pianeta.

Questa analisi non ci fornisce alcuna certezza, ma ci rende certamente positivi sulla presenza della vita al di fuori del nostro Pianeta.

Tutto questo, unito alla domanda di partenza, struttura altre domande, quali ad esempio:

“la vita sulla Terra è da considerarsi una eccezione?”

o ancora,

“essa si è auto-generata o è stata portata da qualche causa fortuita?”.

Rispondere a tali domande non sarà facile, ma presto il testimone di Kepler passerà infatti a Wfirst (Wide-Field Infrared Survey Telescope) della NASA.

Il lancio del futuro cacciatore di mondi è in programma entro i prossimi dieci anni.

Avremo un ritorno decisamente maggiore dei nostri investimenti, sapendo dove andare a cercare“, ha osservato il coordinatore della ricerca sapendo che la possibilità di trovare un pianeta abitabile esiste e quest’ultimo potrebbe essere in grado di sostenere la vita poiché essa è già nata ed è presente in un luogo conosciuto dell’Universo…

Questo luogo è la Terra!

Fig. 2 – Telescopio astronomico Wfirst, immagine della NASA

Allora come mai, dopo quanto detto fino ad ora, ancora nessun contatto?

Una delle possibili risposte può essere relativa alla nostra “bolla radio”, ovvero quella zona di Spazio contenente i nostri segnali radio, creata dall’Umanità e che indicherebbe a eventuali viandanti stellari la nostra presenza.

L’area è certamente molto grande, circa 200 anni luce di diametro, ma minuscola rispetto anche solo al resto della nostra Galassia.

Se qualcuno, entro quella distanza, avesse gli strumenti adatti potrebbe captare i segnali della nostra presenza, ma va da sé che quel qualcuno, oltre ad avere i mezzi, dovrebbe essere fortemente interessato ad esplorare la “nostra” zona della Galassia…