L’Egitto passa il testimone agli Emirati Arabi Uniti. È Dubai, infatti, il Paese scelto per ospitare la ventottesima edizione della Conferenza delle Nazioni Unite sul clima (COP28), che si svolgerà dal 30 novembre al 12 dicembre di quest’anno e, per la prima volta, sarà presieduta da un amministratore delegato di un’azienda petrolifera: Sultan Ahmed al Jaber.

A dieci mesi dalla sua inaugurazione, dunque, la COP28 fa già parlare di sé. Impossibile non chiedersi, infatti, come un sultano del fossile possa efficacemente porsi alla guida della lotta contro la crisi climatica. Se la risposta a questo interrogativo sembra tristemente scontata, alcune precisazioni su questa controversa figura si rendono necessarie. Al Jaber è amministratore delegato di una delle più grandi aziende petrolifere del mondo, la Abu Dhabi National Oil Company (ADNOC) e dal 2020 ricopre anche l’incarico di ministro dell’Industria e delle Tecnologie Avanzate, dopo essere stato segretario di Stato, e inviato speciale del paese per il cambiamento climatico.

Secondo l’Opec (l’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio), nel 2021, la compagnia petrolifera statale ADNOC ha pompato 2,7 milioni di barili di petrolio al giorno, contribuendo così a rendere gli Emirati Arabi Uniti uno dei 10 maggiori produttori di petrolio a livello mondiale e uno dei primi cinque emettitori pro capite di gas serra. La compagnia, però, ha obiettivi ben più ambiziosi, puntando a raddoppiare la produzione a cinque milioni di barili al giorno entro il 2027. Un traguardo che assai difficilmente sembra potersi allineare con la necessità di contenere l’aumento delle temperature a 1,5 gradi centigradi, così come prescritto dall’Accordo di Parigi. Altrettanto difficile appare anche conciliare tale aumento di produzione con il raggiungimento del target emissioni zero entro il 2050. Non a caso, gli obiettivi e le politiche climatiche degli Emirati Arabi Uniti sono stati giudicati da Climate Action Tracker come altamente insufficienti.

Come dichiarato da Chiara Liguori, consulente di Amnesty International per il clima, la nomina di al Jaber come presidente della COP28 ha inviato un segnale sbagliato. Il sultano, tuttavia, è anche CEO fondatore di Masdar, una società statale di energia rinnovabile di cui ADNOC detiene il 24% della proprietà. Lanciata nel 2006 e attiva in oltre 40 paesi, Masdar ha investito principalmente in progetti di energia solare ed eolica con una capacità di rimpiazzare più di 19 milioni di tonnellate di emissioni di anidride carbonica all’anno.

Proprio questa circostanza sembra attirare sul sultano la benevolenza e l’ammirazione di alcuni uomini politici. Il negoziatore principale per il clima della Repubblica Democratica del Congo, per esempio, ha dichiarato alla BBC che le persone non dovrebbero vedere al Jaber solo come un malvagio produttore di gas serra. Piuttosto «Dovrebbero anche vedere cosa ha fatto nel mondo delle energie rinnovabili. [il sultano] Capisce sia i combustibili fossili che la decarbonizzazione e come è possibile realizzare la transizione alle rinnovabili».

Una posizione, quest’ultima, che sembra condivisa anche da John Kerry, inviato presidenziale statunitense, e dal ministro degli Esteri indiano. Entrambi, infatti, ritengono che la duplice posizione rivestita da al Jaber gli abbia permesso di accumulare un’esperienza in materia di energia e cambiamenti climatici tale da riuscire a portare al tavolo dei negoziati della COP28 gli interessi di tutte le parti in causa. È, però, legittimo chiedersi quali saranno le parti attivamente coinvolte nel processo negoziale e quali gli interessi realmente tutelati.

Se, infatti, i Paesi che hanno dovuto rallentare la loro transizione verso l’energia pulita, a causa di Covid19 prima e guerra in Ucraina poi, guarderanno di buon occhio la nomina del sultano al Jaber, che per ovvi motivi potrebbe fare gli interessi dei lobbisti associati all’industria del fossile. Lo stesso non faranno i rappresentanti dei Piccoli stati insulari in via di sviluppo e nemmeno i delegati delle tante ONG ambientaliste che già da ora stanno mostrando la propria preoccupazione per i possibili sviluppi della COP28. Una COP che, senza volersi lasciare andare a pronostici o prematuri giudizi, rischia di costituire l’ennesimo tentativo fallito di mettere al bando i combustibili fossili e scongiurare gli effetti di una crisi sempre più irreversibile.

 

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