A luglio sarà il decimo anniversario del colpo di stato dell’allora generale, oggi presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi.

In questi dieci anni, nelle sue relazioni diplomatiche con l’Egitto, l’Italia ha avuto un atteggiamento accondiscendente, addirittura premiale (si pensi alle straordinarie forniture di armi) e improntato alla stipula di accordi commerciali e strategici.

Questo atteggiamento non ha minimamente tenuto conto del fatto che, nello stesso periodo, la situazione dei diritti umani in Egitto andava precipitando. Quel che è peggio, non è cambiato neanche quando le violazioni dei diritti umani hanno riguardato due vicende che hanno colpito moltissimo l’opinione pubblica italiana.

Quanti primi ministri e ministri di vari dicasteri, incontrando i loro omologhi egiziani, si sono sentiti fare rassicurazioni sulla necessaria collaborazione giudiziaria per individuare e processare i responsabili del sequestro, della tortura e dell’omicidio di Giulio Regeni?

Quante volte abbiamo ascoltato varie autorità italiane annunciare che avevano sollecitato una rapida e felice soluzione per Patrick Zaki, che tra due settimane entrerà nel quarto anno della sua persecuzione giudiziaria?

Anche questa volta, al rientro del Ministro degli Esteri Tajani al Cairo, chi torna in Italia parla di rassicurazioni: chieste e ottenute.

Due date, nel mese di febbraio, ci diranno se sarà cambiato qualcosa: il 13 il giudice dell’udienza preliminare deciderà se il processo ai quattro funzionari egiziani accusati delle plurime violazioni dei diritti umani ai danni di Giulio Regeni partirà o meno; il 28 ci sarà l’ennesima udienza del processo che vede Patrick Zaki alla sbarra per il reato orwelliano di “diffusione di notizie false”, ovvero aver scritto cose vere.