Malta non può ritenersi “paese competente” per coordinare e garantire attività di ricerca e salvataggio

1. Ci sono questioni che riguardano gli obblighi di soccorso in mare che ritornano da anni, con le stesse cadenze argomentative, nella prassi amministrativa, nei procedimenti giudiziari e nei provvedimenti legislativi, come il Decreto legge n.1 del 2023, attualmente in fase di conversione, ma già ostacolo per i soccorsi in mare. Questioni da affrontare con il criterio dell’ordine gerarchico delle fonti normative, imposto dagli articoli 10, 11 e 117 della Costituzione, e dunque tenendo conto delle prescrizioni vincolanti delle Convenzioni internazionali e dei Regolamenti europei.

Una di queste questioni, che viene sollevata per criminalizzare le operazioni di ricerca e salvataggio delle Organizzazioni non governative, riguarda la suddivisione del Mediterraneo centrale in zone SAR, zone che non segnano un limite alla giurisdizione degli Stati, ma prefigurano semplicemente delle competenze e delle responsabilità, attribuite alle autorità statali, in Italia, secondo la vigente legislazione ed il Piano Sar nazionale del 2020, al Ministero dell’interno, al Ministero delle infrastrutture, al Ministero della difesa, ed a livello operativo, alla Centrale di coordinamento della Guardia costiera (IMRCC) ed al Coordinamento della Marina militare (CINCNAV). In base alle Convenzioni internazionali (UNCLOS, SAR, SOLAS) al di là della distinzione delle zone SAR, tutti gli Stati costieri comunque informati di un evento di soccorso hanno l’obbligo di coordinare gli interventi e di attivarsi tempestivamente, anche al di fuori della propria area di responsabilità, se lo Stato che risulterebbe competente in base ai registri IMO (Organizzazione marittima internazionale dell’ONU) non può o non vuole intervenire direttamente con propri mezzi. Il fine superiore da salvaguardare è la protezione della vita umana in mare, e anche l’accesso ad una equa procedura di asilo, che rientra tra i diritti fondamentali della persona, in base all’art. 33 della Convenzione di Ginevra sui rifugiati che sancisce il principio di non respingimento verso paesi nei quali si potrebbero subire trattamenti disumani o degradanti. Qualunque disposizione di legge, come qualunque provvedimento amministrativo che vada contro questi principi può essere impugnato davanti ai giudici nazionali ed alle corti internazionali. Se il legislatore mantiene una formulazione della norma che fa riferimento anche indiretto (con l’uso del termine “aree di competenza”) ad accordi con paesi terzi o a ripartizioni delle zone SAR (ricerca e soccorso) che comportano l’omissione di interventi di salvataggio, o la collaborazione con autorità militari che non rispettano i diritti umani, come si verifica da anni da parte delle autorità italiane, nei rapporti con il governo provvisorio di Tripoli, la legge può essere disapplicata in nome delle clausole generali di forza maggiore o di stato di necessità.

Secondo l’OIM (Organizzazione internazionale delle migrazioni): “la Libia non è un porto sicuro ed il numero delle persone riportate a terra dalla guardia costiera libica non collima con quello delle presenze nei centri di detenzione e questo apre a speculazioni. Queste persone possono essere vendute per lavoro temporaneo o addirittura soggette a richieste di riscatto da parte della famiglia per essere liberate”. A tale proposito va ricordata la pronuncia del Tribunale di Napoli, che nel mese di ottobre del 2021 ha condannato il comandante di un rimorchiatore (Asso 28) di servizio ad una piattaforma offshore a 70 miglia dalla costa libica, per avere riportato nel porto di Tripoli, decine di persone che già si trovavano in acque internazionali. Una sentenza che indica chiaramente la insostenibilità dei Trattati, dei Protocolli operativi e dei Memorandum d’intesa stipulati nel tempo con la Libia.

In caso di denuncia o di procedimento giudiziario, che riguardino questi temi, vanno dunque sollevate questioni di costituzionalità e di violazione dei Regolamenti europei che rafforzano, anche nei confronti del legislatore, la natura vincolante delle Convenzioni internazionali. Che non possono essere violate o travisate ricorrendo alla decretazione d’urgenza, in assenza peraltro dei requisiti di straordinarietà ed urgenza richiesti dalla Costituzione. Se lo scorso anno c’è stato un notevole aumento degli arrivi via mare in Italia e dei soccorsi nelle acque del Mediterraneo centrale, occorre sempre ricordare che soltanto il 12 per cento delle oltre cento mila persone in fuga via mare verso l’Italia nel 2022 è stato soccorso dalle navi delle ONG. Eppure solo questi casi sembrano giustificare una valutazione di straordinarietà e di urgenza che ancora una volta appare strumentale al raggiungimento di una evidente finalità politica.

 

2. Alla base dei divieti di ingresso nelle acque territoriali o nei porti italiani, frapposti nel tempo alle navi delle ONG, si sono indicate diverse motivazioni, le stesse che hanno poi giustificato i tentativi di sanzione, motivazioni che nei procedimenti penali ancora pendenti vengono rilanciate da alcune procure come tratti caratterizzanti i capi di imputazione. Si è così contestato che le operazioni di soccorso non fossero state immediatamente comunicate al centro di coordinamento competente per il soccorso marittimo e allo Stato di bandieraUna vera falsità, perché finora in tutte le operazioni di ricerca e salvataggio che sono state oggetto di contestazione, i comandanti delle ONG hanno sempre dimostrato, sulla base dei documenti e dei rapporti riassuntivi delle comunicazioni intercorse con le “autorità competenti”, di avere tempestivamente adempiuto i doveri di informazione nei confronti delle autorità italiane e dello Stato di bandiera della nave. Le navi umanitarie comunicano del resto gli eventi di soccorso alle autorità libiche e maltesi, che nella maggior parte dei casi neppure rispondono ai messaggi. Si è pure giunti a contestare che le medesime attività di ricerca e salvataggio in acque internazionali non fossero state effettuate “nel rispetto delle indicazioni della competente autorità per la ricerca e il soccorso in mare”. Come se le navi delle ONG presenti in acque internazionali fossero obbligate a chiamare le autorità libiche, restare in stand by senza effettuare soccorsi e trasbordi, ed attendere l’arrivo delle motovedette libiche o tunisine per la consegna (una vera rendition) dei naufraghi. La stessa argomentazione ritorna nei pochi procedimenti penali ancora aperti nel confronti delle ONG, come nel caso del procedimento Maersk/Mare Ionio davanti al Tribunale di Ragusa contro componenti della ONG Mediterranea, che operava con il rimorchiatore Mare Ionio, peraltro ancora bloccato con misure di fermo amministrativo. Di certo la responsabilità di coordinamento dei soccorsi, con la successiva indicazione di un porto di sbarco sicuro, non può ricadere sugli Stati di bandiera delle navi, nè si può impedire ad una nave battente bandiera italiana l’ingresso in un porto del nostro paese, con un gruppo di naufraghi a bordo, sia pure trasbordati da nave battente bandiera di altro Stato che li aveva soccorsi in precedenza. Sembra che, almeno di questo, nel nuovo Decreto sicurezza n.1 del 2023 si sia dovuto prendere atto, forse anche per evitare reazioni troppo dure a livello europeo, dopo il durissimo scontro diplomatico con la Francia, e con la Germania, sui casi delle navi delle ONG, in particolare di MSF e Sos Humanuty, entrate con una precisa limitazione del dirito di sosta nel porto di Catania, agli inizi di novembre dello scorso anno, e poi della Ocean Viking di SOS Mediterraneé, “respinta” e costretta ad andare fino a Tolone, dopo la concessione di un porto di sbarco sicuro (POS) da parte della Francia.

Il Decreto legge n.1 del 2023, attualmente all’esame del Parlamento in sede di conversione, provvedimento privo dei requisiti di necessità e urgenza, tende a mantenere una totale discrezionalità in capo alle autorità marittime, e tramite queste al ministro dell’interno, nella classificazione, e quindi nella distinzione dei casi di sorveglianza, di allerta e di distress. Si consente così di escludere la ricorrenza di una situazione di pericolo immediato, classificando l’evento di soccorso come evento migratorio, una distinzione che invece può essere apprezzata soprattutto dal comandante della nave più vicina. Date le caratteristiche delle imbarcazioni sulle quali i migranti vengono fatti partire dai paesi nordafricani, soprattutto dalla Libia e dalla Tunisia, per il sovraccarico ed il loro equipaggiamento, la situazione di pericolo immediato (distress) va invece riconosciuta nella generalità dei casi, come purtroppo è confermato dai naufragi sempre più frequenti. Come è stato ritenuto dalla Procura della Repubblica di Agrigento nella richiesta di archiviazione, nel mese di gennaio del 2020, di uno dei procedimenti penali che hanno riguardato comandante e capo-missione della nave Mare Ionio di Mediterranea, e come hanno confermato altre successive sentenze di archiviazione.

Attorno a questo tipo di valutazioni, che prendono le mosse da quanto previsto dal diritto internazionale e dal Regolamento europeo n.656 del 2014, si giocherà probabilmente il processo Open Arms/Salvini a Palermo. Anche se il vero tema di quel dibattimento, se si vuole restare sul terreno dei capi di imputazione, non è costituito dalle modalità dei primi soccorsi, ma nei sei giorni in cui la Open Arms restava ormeggiata a poche centinaia di metri dall’ingresso nel porto di Lampedusa, tanto che alla fine i naufraghi potevano sbarcare soltanto per effetto del Decreto di sequestro della nave, adottato dalla Procura di Agrigento.

Non può sfuggire una precisa sinergia tra le poche iniziative della magistratura non ancora archiviate nei confronti delle ONG e quanto previsto dal Decreto legge n.1 del 2023, in corso di conversione in legge, che comunque è privo di qualsiasi valenza retroattiva, in particolare quando, per giustificare i divieti di transito in acque territoriali, si fa riferimento ad “autorità competenti per la ricerca ed il soccorso in mare”, ed al divieto di trasbordi. In entrambi i casi si individua la competenza per i soccorsi in acque internazionali in base alla suddivisione del Mediterraneo centrale in zone SAR di ricerca e salvataggio, attribuite a Malta, alla Libia ed alla Tunisia.

Si ritiene in sostanza possibile, vietare il transito e la sosta, dunque l’ingresso in porto, alle navi delle Organizzazioni non governative, e soltanto a queste, dopo che abbiano operato attività di ricerca e salvataggio in acque internazionali, se non si sono rivolte, alle autorità libiche o tunisine, o se non si sono piegate ai loro comandi, ove queste avessero assunto responsabilità di coordinamento SAR. e per queste ragioni si vorrebbe conseguentemente sanzionare il Comandante, il Capomissione della nave, o altri esponenti della ONG.

Da parte del governo si richiama sempre più spesso il principio di legalità nel “controllo dei flussi migratori”. Non si può che condividere questo richiamo, che deve valere anche per le autorità statali e per gli obblighi a carico degli Stati chiamati a garantire la salvaguardia della vita umana in mare, ricordando che il Protocollo aggiuntivo sul traffico di esseri umani, allegato alla Convenzione di Palermo del 2000, contro il Crimine transnazionale, tante volte citato, antepone il diritto alla vita ed il diritto di asilo al contrasto dell’immigrazione irregolare ed alla “difesa dei confini nazionali”.

 

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