“Nella vita talvolta è necessario lottare, non solo senza paura, ma anche senza speranza” (Sandro Pertini).

C’è un anarchico nelle Patrie Galere italiane, sottoposto al regime di tortura democratico del 41 bis, che sta morendo di fame. Ed io non so cosa fare per trasmettergli la mia solidarietà, posso solo scrivere… ed immaginare che cosa accadrà:

Alfredo da molto tempo era convinto che solo gli stessi prigionieri potessero portare la legalità in carcere. E decise di lottare per i propri diritti. In carcere non c’è giustizia, ma non bisogna mai rinunciare a cercarla. E per cercarla bisogna muoversi, soffrire, sacrificarsi e attivarsi, lottando anche contro sé stessi.

Alfredo non era mai stato il migliore in nulla, ma quella volta decise di esserlo. E pensò di tentare di essere migliore dei suoi governanti, dei suoi “educatori” e delle guardie che lo tenevano prigioniero. Spesso in carcere non si ha che la vita per difendere i propri diritti, e Alfredo usò proprio quella. Iniziò uno sciopero della fame. Nel giro di una settimana perse dieci chili: da ottanta chili arrivò a pesarne settanta.

All’inizio era molto sicuro di sé. Poi iniziò a sentire i primi dolori. Al ventesimo giorno di sciopero della fame, Alfredo non riusciva più a muoversi come i primi giorni. Si sentiva sempre più stanco. Gli facevano male i muscoli. Gli si addormentavano le gambe. Riusciva a malapena a leggere qualche pagina di qualche libro, ma subito gli veniva sonnolenza. Con il passare dei giorni, il suo corpo si indeboliva sempre di più, ma la sua anima era ancora più forte di quando aveva iniziato lo sciopero della fame. E iniziò a sentirsi abbastanza debole da essere forte. Per lui la vita non valeva nulla senza la possibilità di lottare. E non avrebbe ceduto fin quando non lo avessero tolto da regime di tortura del 41 bis.

Con il passare dei giorni non aveva neanche più la forza di alzarsi dalla branda. Poi non ebbe più neppure la forza di avere fame. Ormai aveva solo la forza di non aver paura di morire. Alfredo si stava spegnendo come una candela. Eppure continuava a credere ciecamente che non ci fosse nulla di più bello che lottare per i propri diritti. La posta che riceveva continuava ad ammucchiarsi sul tavolino della sua cella. Lui si rifiutava di leggerla. Sapeva che se lo avesse fatto, avrebbe ceduto e avrebbe iniziato a mangiare. Lui non voleva questo. Lui voleva che venissero rispettati i suoi diritti. Alfredo arrivò al cinquantesimo giorno di sciopero della fame. Ed era arrivato a pesare cinquantacinque chili.

Stava morendo. Ormai era l’ombra di sé stesso. Non aveva più forza, né energia, né rabbia. Ormai non dormiva e neppure era sveglio, si trovava sospeso tra il cielo e la terra. Stava andando nel nulla, sapendo che poi non avrebbe più avuto la forza per tornare indietro. Aveva intuito che sia fuori che dentro si erano attivati per farlo ricoverare all’ospedale, per costringerlo ad alimentarsi con la forza. Negli attimi di lucidità, Alfredo sperava di morire prima che ci riuscissero, perché lui non avrebbe mai smesso lo sciopero della fame se prima non lo avessero tolto dal 41 bis. Questa volta lui voleva vincere. Ed era disposto, se non ci fosse riuscito, a morire.

Così Alfredo andò incontro al suo destino. E morì quasi senza accorgersene. La morte lo stava aspettando al di là del cancello. Gli sorrise con dolcezza. Gli venne incontro. Lo prese per la mano. Lui si voltò per vedere per l’ultima volta il suo corpo sdraiato sulla branda. Poi uscì dalla cella. Il cancello era chiuso, ma senza il corpo Alfredo lo attraversò con facilità. E la morte fu più buona dei suoi governanti, dei suoi educatori e dei suoi guardiani, perché lo portò per l’ultima volta a vedere il mondo anarchico che aveva sempre immaginato. Almeno così gli sembrò di immaginare, perché quando muori la morte ti fa vedere tutto quello che desideri vedere.