L’arresto del boss Matteo Messina Denaro ha scatenato  media e professionisti dell’informazione (e della disinformazione), insieme a politici e commentatori d’ogni  genere e tipo, in una rincorsa alla scoperta del lato oscuro, del non detto e della menzogna di regime da svelare, da parte di chi pretende di saperla più lunga.

Sia chiaro che dubitare sempre delle versioni ufficiali di chi sta nella stanza dei bottoni, è un nostro diritto, anzi direi un nostro preciso dovere di cittadini che nulla devono mai dare per scontato. Il potere è da sempre un Giano bifronte, con un volto rivolto ai propri inconfessabili intrighi di palazzo, e l’altro sereno e rassicurante da mostrare ai sudditi. E’ sempre stato così ed è così anche oggi nelle democrazie, dove la pretesa che il palazzo sia trasparente, non fa altro che moltiplicare le narrazioni ingannevoli e accattivanti. 

C’è tuttavia un limite che bisogna darsi nell’esercizio del dubbio e nella ricerca di pezzi di contro narrazione, ed è quello di non pretendere di potere sempre arrivare alla verità che ci è stata nascosta. Questo bisogno di certezze, anche umanamente comprensibile, porta spesso a cercare scorciatoie che finiscono per produrre le ben note verità delle “tesi complottiste”. Verità presunte alle quali spesso crediamo, non per certezza di fatti verificati, ma perché sono sovente quelle che più si attagliano al nostro modo di vedere le cose e concepire il mondo che ci circonda. Sono cioè in qualche modo confortanti, e ci fanno scordare che anche tra “il molto probabile” e ciò che è “assolutamente vero” c’è una distanza, a volte anche piccola, che tuttavia non è mai lecito percorrere.

Tutti i pezzi di contro narrazione che si sono sviluppati nelle riflessioni  e nelle pratiche di contrasto alla mafia sembrerebbero convergere ormai intorno ad un dato unificante che può essere definito come “la trattativa”. Precisiamo subito, a questo proposito, che il sospetto di strani rapporti tra pezzi dello Stato e la mafia è cosa del tutto legittima, e l’idea che vere e proprie trattative siano state imbastite, in vari momenti e in vari modi, è cosa del tutto credibile, sulla quale è doveroso indagare e chiedere verità. Il problema nasce piuttosto dal fatto che “La Trattativa” (usiamo volutamente le maiuscole) è ormai diventata una sorta di macro narrazione, un vero e proprio teorema, che lungi dal limitarsi a cercare di svelare gli arcani di singoli fatti, ci da una interpretazione complessiva del fenomeno mafia, legandolo in modo prioritario e direi strutturale ad alcuni apparati dello Stato definiti “deviati”. Anche questa lettura ha indubbiamente una qualche intrinseca plausibilità. Ciò che invece non è accettabile (almeno dal nostro punto di vista) è che a questo connubio tra apparati statali e malavita; o meglio, a questa vera e propria teoria di uno Stato-mafia venga opposto, non solo come strumento di contrasto, ma come complessiva alternativa organica e strutturale, uno Stato-legge, fondato innanzitutto sulla azione di polizia e soprattutto sulla centralità del ruolo della magistratura, appoggiata se possibile da organizzazioni della società civile organizzate secondo logiche “combattenti”. La lotta alla mafia si risolve così, in buona sostanza, in uno scontro di lungo periodo tra uno “Stato buono” e  uno “Stato cattivo”.

La nostra visione di contrasto alla mafia è assolutamente diversa, ed è lontanissima da qualunque tentazione statalista e aprioristicamente legalista. La nostra idea di partenza è che la mafia, malgrado tutte le sue specifiche caratteristiche di tipo storico, politico e sociale che corrono lungo un percorso ultra secolare, si possa oggi interpretare come uno dei possibili volti che assume quella economia illegale e criminale, che è, a livello globale, un dato saliente e non eliminabile, né secondario, di qualunque economia di mercato capitalista. . La mafia è dunque, nella realtà di casa nostra, uno dei volti, seppure anomalo e particolarmente “impresentabile” e non riconosciuto, che assume il comando di capitale. 

Sia ben inteso che, nella nostra generalizzazione, non stiamo sottovalutando nulla! Sappiamo benissimo che la mafia è per molti versi un fenomeno unico, con una particolare pericolosità legata ai modi di una radicata sotto cultura, e ad una specifica capacità di penetrazione di massa. Tuttavia considerarla oggi come parte dell’economia globale, e dell’economia criminale in particolare, ci indica la giusta via per poterla affrontare. 

Non c’è contrasto alla mafia, né possibilità alcuna di vittoria anche sul lungo periodo, se non si fa della lotta al crimine e al malaffare una questione interna alla battaglia per una profonda trasformazione delle strutture di potere e delle relazioni sociali. La lotta per l’uguaglianza sociale e per una più equa distribuzione della ricchezza, legata ad una nuova frontiera di dignità e riscatto per le popolazioni del sud e della Sicilia in particolare, sono condizioni di partenza assolutamente necessarie  perché si renda anche possibile quel nuovo modo di sentire i valori del vivere in comunità, come premessa di qualunque lotta alla mafia. Possiamo dire in conclusione che la mafia si può sconfiggere solo ribaltando gli assetti di quella società entro la quale prospera e si riproduce. (Questo tra l’altro, sia detto per inciso, era anche l’insegnamento che ci ha lasciato Peppino Impastato che dell’anti statalismo capitalista era sostenitore, prima di essere “santificato” dalla retorica dominante, come alfiere dell’antimafia di regime).  

Al contrario lo Stato-legge è la negazione di qualunque radicale trasformazione sociale. La magistratura, che della lotta alla mafia è il cuore pulsante, ha come suo compito istituzionale quello di imporre il rispetto della legge attraverso la punizione che viene inflitta a chi la trasgredisce. Il che ha esattamente lo scopo di riprodurre l’ordine stabilito. Quello stesso ordine stabilito che è proprio quello entro il quale, come abbiamo visto, in ultima analisi, la mafia trova il suo terreno di coltura per riprodursi. 

Lo Stato-legge potrà anche ottenere vittorie parziali, mettere magari all’angolo qualche boss ed inibire le manifestazioni criminali più sanguinose, ma alla fine non potrà mai impedire che la mafia rinasca sempre dalle sue stesse ceneri. Ne è una evidente dimostrazione il fatto che l’azione repressiva di polizia e magistratura, che per sua natura dovrebbe avere carattere emergenziale, si è ormai istituzionalizzata, riproponendosi praticamente a partire dagli anni ottanta, senza alla fine ottenere risultati definitivi.

Infine, ultima questione ma di fondamentale importanza, va sottolineato come, oltre le stesse vicende della lotta alla mafia, la cultura e le pratiche dello Stato-legge hanno un impatto sociale semplicemente devastante. Innanzitutto va detto di come si sia snaturato il ruolo della magistratura, chiamata ad un compito di supplenza che non le è proprio. Come contrastare la mafia è questione che riguarda la politica e non il potere giudiziario che dovrebbe limitarsi ad essere “la bocca della legge”, che fa sentire la sua voce esclusivamente negli atti ufficiali e nelle aule dei tribunali (e, giusto per intenderci, non negli show televisivi!).

Più in generale il diffondersi della teoria dello Stato-legge ha prodotto una forte propensione verso un sentire orientato all’affermazione dei caratteri di uno statalismo legalista ad impronta fortemente giustizialista. Come dire che quello in cui viviamo è “il migliore dei mondi possibili”, almeno nella metà che riguarda lo “Stato buono”, e che dunque non c’è bisogno di immaginare ribaltamenti “rivoluzionari” dello stato presente delle cose, pena magari l’essere proditoriamente ricacciati nella metà dello “Stato cattivo”, insieme ai criminali mafiosi.

L’aspetto più chiaramente percepibile, e più immediatamente deleterio, di questa retorica statalista è il moltiplicarsi delle misure penali di tipo giustizialista, che nate come misure di contrasto alla mafia, sono ormai applicate ad ogni forma di dissenso e di protesta sociale e civile. (Ne sa qualcosa l’anarchico Cospito, e ne sanno qualcosa i militanti NO TAV). E’ impressionante, d’altra parte, constatare come anche vecchi militanti della sinistra radicale, si siano convinti che misure liberticide ed inumane come il 41 bis e l’ergastolo ostativo siano strumenti indispensabili per contrastare la mafia. 

In questa ottica perversa per cui ogni misura, anche estrema, è buona per rispondere a ciò che per una ragione o per un’altra, si pone fuori dall’ordine costituito, mi chiedo se da un punto di vista puramente logico, non potrebbe starci anche la pena di morte. Lo so che sto esagerando. Ma se di questo ancora non si parla (e speriamo non se ne parli mai), state sicuri che non è per la benevolenza dei potenti, ma perché per fortuna le nostre anime e le nostre menti non sono state condizionate fino a questo punto.