Questione fondamentale per comprendere la remunerazione dei produttori, la quota della distribuzione e del trasporto. In un contesto di impennata generalizzata dei prezzi, osserviamo più da vicino dove va il nostro denaro e chi ne approfitta di più.

Alla cassa, cosa si paga? Se qualcuno pensa ancora che i produttori o gli artigiani siano coloro che maggiormente ci guadagnano, si sbaglia! Senza pretendere di essere esaustivo, questo articolo si propone di analizzare la composizione dei prezzi dei prodotti soltanto alimentari, anche se ci sarebbe molto da dire anche sui prezzi praticati nel fast fashion, il tessile e i beni di largo consumo quotidiano. In ogni caso, acquistare prodotti il più direttamente possibile dal produttore o dal fabbricante, e privilegiare i marchi del commercio equo e solidale permette di garantire una remunerazione più equa ai produttori.

Direttamente dalla fattoria: una costruzione teorica semplice, un’applicazione a geometria molto variabile

L’acquisto diretto da un produttore implica teoricamente un prezzo fissato in base ai costi di produzione (tempo impiegato, investimenti necessari, oneri inerenti alla struttura, compresi i contributi all’MSA, cioè la previdenza sociale agricola, ecc), e in funzione di un margine che permetta al produttore di vivere del suo lavoro. In teoria, quindi, il prezzo di un chilo di pomodori dovrebbe essere calcolato come segue: costi relativi alla coltura (sementi, materiali, fertilizzanti…) + valorizzazione del tempo dedicato al lavoro + margine teorico di redditività dell’azienda agricola, rispetto ai costi complessivi. Il risultato ottenuto va poi diviso per la quantità complessiva di questa produzione, da riportare poi al chilo.

Tuttavia, la maggior parte dei produttori fissa i propri prezzi di base su riferimenti internazionali, nazionali o regionali. Ad esempio, un chilo di pomodori è solitamente più costoso di un chilo di carote, anche se quest’ultimo richiede più tempo ed è meno redditizio.

Il produttore spesso fissa il suo prezzo in relazione alle referenze, per non perdere il consumatore e giustificare facilmente la sua scelta. Inoltre, tende ad adattarlo in base ai suoi smerci. Il prezzo praticato in azienda va interamente al produttore, ma prima di generare un guadagno deve rimborsare le spese e gli investimenti. Al contrario, e a titolo di esempio, il produttore più spesso abbassa i prezzi quando aumenta il numero di intermediari a monte del consumatore finale. Un chilo di pomodori acquistato a 4 euro in fattoria non ha lo stesso valore per il produttore dello stesso chilo di pomodori venduto a 6 euro nel negozio.

Fin dall’inizio, quindi, il prezzo è spesso distorto, perché non è adeguato alle esigenze della produzione, ma si basa sul favore del consumatore e sul riferimento ai prezzi praticati, quest’ultimo basato sui parametri dei metodi di produzione, a volte diversi e lontani, e fondandosi più su una logica speculativa che sulla realtà della produzione. Nonostante questa discrepanza, la vendita diretta permette al produttore di vivere meglio grazie a una remunerazione più equa.

In negozio, in catena corta: la situazione si complica

Un negozio, anche in catena corta, ripercuote dei costi legati al trasporto, allo stoccaggio e agli oneri diretti e indiretti. Questi costi si aggiungono al prezzo base del produttore, aumentato del margine del distributore. I marchi del commercio equo e solidale garantiscono che il prezzo di vendita a questi intermediari sia più equo per il produttore e che non venga imposto dagli intermediari. Per i negozi con una miglior reputazione, impegnati nella qualità dei prodotti e nella giustizia sociale per i propri dipendenti, il prezzo finale per i consumatori è quindi molto più alto. Riprendiamo l’esempio dei pomodori. Se il produttore vende il suo chilo a un prezzo equo stimato in 4 euro, il negozio, se rispetta i suoi dipendenti e soprattutto se non ha una grande capacità logistica, dovrà aggiungervi almeno dal 30 al 50%. Se si tratta di un negozio di produttori, il funzionamento è ancora diverso perché i costi diretti e indiretti riguardano i produttori stessi. In questo modo possono regolare il prezzo finale in base all’affitto e vendere a turno.

Il più delle volte, anche in catena corta, il margine è maggiore e il prezzo pagato al produttore molto più basso. Va inoltre ricordato che comprare locale non implica automaticamente che il produttore sia ben remunerato, né tanto meno proteggere l’ambiente (si veda il nostro articolo sui prodotti biologici o locali).

Nei supermercati: “pronto, terra?”

Dimenticate tutto quello che vi abbiamo appena detto perché ora state entrando in un altro mondo, scollegato dai campi, dal pianeta e dal buon senso!

Prendiamo il pomodoro. Il prezzo d’acquisto è imposto (il più delle volte) al produttore in funzione del prezzo mondiale, europeo o nazionale. A questo basso prezzo, frutto di un accordo tra le multinazionali che puntano al massimo margine possibile, l’azienda aggiungerà i propri costi diretti e indiretti. Sì, ma non solo! Poiché questo funzionamento poggia sul margine, deve essere condiviso anche con gli azionisti. Se il prezzo al consumatore deve essere ridotto, allora è meglio operare tagli salariali o abbassare il prezzo d’acquisto iniziale invece di ridurre il margine o i dividendi che, in un mondo di mercato liberale, devono continuamente aumentare.

Naturalmente, per limitare questo problema, si può sempre fare riferimento ai marchi riconosciuti del commercio equo e solidale.

Osserviamo la banana in questo schema che confronta una distribuzione senza e con il rispetto del commercio equo e solidale:

Ma con l’impennata dei prezzi mondiali, le carte sono state rimescolate… o forse no. I produttori guadagneranno un po’ di più, ma solo marginalmente. Invece i margini non possono scendere, quindi il prezzo sale. Si noti che è sui prodotti biologici che i supermercati guadagnano di più (fino all’80% o addirittura +110% sui pomodori, secondo uno studio di UFC Que choisir¹). Inoltre, sono tornati gli “speculatori della fame”³: gli speculatori finanziari alimentano questa esplosione dei prezzi per il solo fine di ricavare profitti. Una pratica intollerabile che colpisce direttamente il nostro diritto al cibo. È una pratica che fa balzare Foodwatch, Ong che lotta da oltre dieci anni contro la speculazione alimentare e spinge per l’attuazione di norme europee più severe, tanto quanto saltano i prezzi degli alimenti. Che sono aumentati a livello mondiale: il 30% in più rispetto a un anno fa, secondo la FAO. Se la guerra in Ucraina e i timori di penuria che essa provoca sono spesso citati per spiegare il fenomeno, Foodwatch sta riportando l’attenzione su un fattore spesso dimenticato: la speculazione alimentare. Il fenomeno è purtroppo ben presente. Con la guerra in Ucraina, miliardi di euro e dollari sono confluiti in fondi che speculano sul cibo. Questi investitori acquistano in previsione di tensioni di mercato e di un rialzo dei prezzi. Il loro obiettivo? Rivendere al più caro possibile. Questa smania di profitto alimenta poi un circolo vizioso: amplifica l’aumento dei prezzi e le tensioni di rifornimento.

Foodwatch e CCFD-Terre Solidaire propongono di firmare una petizione per combattere la speculazione alimentare: la trovate qui

Ma perché il biologico è più costoso?

Il biologico è spesso più costoso, non solo perché i costi di produzione sono più elevati, ma anche perché gli intermediari traggono maggiori profitti. In realtà, i prodotti convenzionali vengono pagati tre volte: al momento dell’acquisto, attraverso le conseguenze sulla nostra salute, e sotto forma di tasse e imposte utilizzate per ripulire le acque e i suoli… secondo uno studio di Basic². La FAO (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura) stima addirittura che i costi ambientali nascosti annuali della produzione alimentare ammontino a 2.100 miliardi di dollari per l’intero pianeta. I costi sociali nascosti sono stimati ancora più alti: 2.700 miliardi di dollari.

Scegliere alimenti biologici significa contribuire a cambiare i metodi di produzione per ridurre i costi nascosti per la società e il pianeta.

E i consumatori?

I consumatori e le consumatrici sono perdenti tanto quanto i produttori. Il prezzo dei prodotti di qualità è più alto, e l’impatto sulla salute e sull’ambiente dei prodotti più economici è devastante.

Ma rassicuriamoci: se una maggioranza non sa più come nutrirsi di fronte alle questioni in gioco (prezzo, ecologia, sociale…), in compenso una minoranza non ne ha mai tratto così tanto vantaggio! E se volete sapere come vengono distribuiti i sussidi della Politica Agricola Comune, vi consigliamo di guardare la trasmissione d’inchiesta Cash investigation di Élise Lucet sull’argomento₄.

Traduzione dal francese di Dominique Florein. Revisione di Diego Guardiani.


Link utili (in francese):

Scopri i nostri consigli su come acquistare biologico a un costo inferiore

Qui le soluzioni politiche che ci permettano di invertire il funzionamento.

NOTE:

¹ marge de la grande distribution sur le bio – UFC que choisir

² Pesticides, un modèle qui coûte cher – Le Basic

³ Flambée des prix de l’alimentation : les spéculateurs de la faim sont de retour – Food Watch

₄ Où sont passés les milliards de la PAC – Cash investigation

Construction d’un prix juste – Fédération Artisans du monde

Pourquoi les produits bio coutent-ils plus cher – Agence bio

Le commerce équitable réduit les inégalités – FAIRe un monde équitable

L’exemple de la banane – Max Havelaar France

L’exemple du café- Commerce équitable France