Le risorse idriche dell’Italia e del Pianeta intero cominciano a scarseggiare e le siccità che stiamo attraversando, legate a loro volta alla crisi climatica, ne sono una prova. A questo si aggiunge un altro problema, ovvero la gestione scellerata delle fonti d’acqua, che risultano sempre più inquinate e asservite alle esigenze della grande industria. Se n’è parlato al Climate Social Camp di Torino, attraverso testimonianze di chi si batte quotidianamente per l’acqua bene comune.

Water, climate crisis and drought: the right to access public and safe water, ovvero “acqua, crisi climatica e siccità: il diritto ad avere accesso a un’acqua pubblica e sicura“. Era questo il titolo del dibattito che si è tenuto in uno dei tendoni del Climate Social Camp al Parco della Colletta di Torino, a cui come Italia Che Cambia abbiamo partecipato non solo per acquisire informazioni importanti su questo drammatico tema e sulle possibili soluzioni, ma anche per testimoniare il nostro sostegno alla causa dell’acqua bene comune e la nostra presenza in un evento che ha avuto una portata che si potrebbe quasi definire storica.

COME CAMBIA IL CLIMA

Ha aperto il dibattito Roberto Mezzalama, autore de Il clima che cambia l’Italia, riportando una serie di informazioni che devono metterci in allarme: ha parlato di come il progressivo spostamento dell’anti-ciclone delle Azzorre, da dieci anni a questa parte, abbia reso sempre più arida la pianura padana e di come mai il 2022 è risultato essere così arido. Un inverno caldo e la mancanza di temporali primaverili hanno portato infatti a una situazione critica già all’inizio dell’estate, l’assenza di temporali estivi ha fatto il resto.

Le temperature di quest’anno sono paragonabili all’ondata di caldo che colpì l’Europa nel 2003, con la sostanziale differenza che quest’anno il Piemonte – ad esempio – ha un deficit idrico di quasi il 70%. Questo in termini pratici significa che bisogna decidere cosa fare con l’acqua che resta: scegliere se utilizzarla per la zootecnia, l’industria, l’agricoltura o per produrre energia, perché non ce ne è abbastanza al momento. Nel nostro piccolo anche ridurre il nostro consumo di carne rappresenterebbe un’importante passo avanti: infatti 2/3 dei terreni agricoli sono utilizzati nella produzione di mangimi animali senza considerare l’acqua utilizzata direttamente per fare abbeverare gli animali.

IL BACINO DEL SARNO

L’analisi è proseguita “spostandosi” verso Sud. Alla mancanza d’acqua si somma il problema della qualità di quella rimanente. L’associazione Controcorrente ha raccontato la situazione del Sarno, un piccolo torrente Campano che si aggiudica il titolo di fiume più inquinato d’Europa. Con una lunghezza di appena 24 chilometri, ma un bacino idrografico che interessa una trentina di Comuni, il Sarno rappresenta un’importante arteria idrica della zona. Oltre all’inquinamento legato all’agricoltura e quello civile – la rete fognaria si butta direttamente nel corso d’acqua, senza alcuna depurazione – vi è un massiccio inquinamento di natura industriale, dovuto principalmente alla concia delle pelli.

Sversamento di scarichi industriali nel fiume Sarno

I materiali di scarto della lavorazione vengono riversati nel fiume, previa depurazione, per via del cromo esavalente, sostanza altamente cancerogena. I valori di cromo, 50 volte superiori ai limiti di legge, alimentano il sospetto che i depuratori non funzionino perfettamente. Se poi al disinteresse del privato si somma l’inadempienza del pubblico, il quadro si fa ancora più grave. Il registro dei tumori è fermo all’anno 2013, con dati tutt’altro che rassicuranti; inoltre l’ente gestore del bacino del Sarno, Gori S.P.A, riveste il duplice ruolo di gestore e controllore, situazione che, a detta degli attivisti di Controcorrente, presenta un evidente conflitto di interessi.

SOLVAY E FLUOROSURFATTANTI

Dalla Campania passiamo in Piemonte, a Spinetta Marengo, e dal cromo esavalente ai PFAS – ovvero sostanze perfluroalchiliche –, inquinanti con un’emivita lunghissima e, anche questi, estremamente cancerogeni. Viola Cereda del comitato stop-Solvay punta il dito contro la Solvay S.P.A, tristemente nota per le spiagge bianche di Rosignano e costruita proprio dove un’altra azienda è già stata condannata per disastro ambientale. Infatti la multinazionale, oltre a pagare una cifra irrisoria per il sovrasfruttamento della falda, è responsabile anche dell’inquinamento delle sue acque, che alimentano la Bormida e di conseguenza il Po.

I PFAS passano dall’acqua ai prodotti dell’agricoltura e da essi fino a noi, dove vanno ad accumularsi nel sangue, rischiando di provocare tumori ai reni e varie malattie alla tiroide. A Spinetta Marengo il tasso di malformazioni del sistema nervoso è più alto dell’83% rispetto alla media nazionale. I racconti di tutti questi attivisti vanno a formare una lunga linea azzurra, che passa per Torino e arriva fino a Sammarsano sul Sarno, attraversando il Piemonte e la Toscana. Si espande per il globo e unisce le lotte indigene per il diritto alla terra alla battaglia contro la desertificazione del Sahel.

È una linea che ci lega tutti e tutte, che parte da Porto Alegre, nel 2001, quando la società civile e i movimenti sociali hanno iniziato a parlare di acqua come bene comune, pubblico, sul quale non si deve e non si può fare profitto. Concludo allora queste mie considerazioni con la stessa frase con cui si è chiuso il dibattito, su cui vi invito a riflettere: “Non abbiamo ereditato l’acqua dai nostri padri, ma l’abbiamo avuta in prestito dai nostri figli”.

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