L’inflazione imperversa ed è ormai arrivata all’8% nell’area Euro. La BCE a breve dovrebbe aumentare i tassi di 25 punti base (che significa dello 0,25%) a cui dovrebbe seguire in autunno un aumento forse del doppio, dello 0,5%. Le ricadute recessive potrebbero essere catastrofiche, specialmente per le economie mediterranee fortemente indebitate. Malgrado tali presagi di sventura gli economisti mainstream di orientamento neoliberista hanno rimproverato la Banca Centrale Europea di essersi mossa in ritardo rispetto alla FED, nel fare “quello che era necessario fare”. Necessario? Vediamo di smontare questa credenza divenuta ormai comune.

Chiariamo innanzitutto che l’aumento dei tassi di interesse è una misura restrittiva, il cui scopo è quello di sottrarre liquidità al mercato deprimendo la domanda e generando dinamiche fortemente recessive. Per gli economisti neoliberisti di scuola neoclassica e marginalista l’inflazione è una vera ossessione. Per loro, infatti, il mercato trova sempre un suo “naturale equilibrio” che si manifesta nei prezzi, che nel rapporto tra domanda e offerta determina il “vero” valore della merce. L’unica variabile che il mercato non può autodeterminare è la quantità di moneta circolante che dipende dalle emissioni della Banca Centrale. Da qui nascono le teorie “monetariste”, che si concentrano sulla gestione del costo del denaro (tassi d’interesse), e impongono di immettere liquidità quando i prezzi sono stagnanti e, invece, di sottrarre liquidità quando i prezzi tendono al rialzo. Detto in soldoni: Il mercato ha sempre ragione, e quando si trova in fase recessiva non bisogna intervenire con misure strutturali, ma bisogna assecondarlo sottraendo dalla circolazione la moneta in eccesso, creando così una sorta di moltiplicatore della recessione stessa.

In verità le cause reali dell’inflazione hanno sempre poco a che vedere con un eccesso di liquidità, che è soltanto un effetto secondario. Oggi, nello specifico, il problema si presenta come crisi dell’offerta, legata alle strozzature nella catena degli approvvigionamenti dovuta all’emergenza pandemica, a cui si è aggiunta negli ultimi mesi la guerra in Ucraina e la conseguente crisi energetica, con l’aggiunta di manovre speculative che sempre si ripresentano, in questi casi, ad aggravare l’inflazione. È su queste cause che, casomai, bisognerebbe intervenire, e non sulla quantità di moneta circolante.

Ma quello su cui vogliamo concentrarci è un’altra questione.

Da sempre i lavoratori e i ceti a più basso reddito sono stati quelli che hanno pagato gli effetti dell’inflazione. Una volta per difendere il potere d’acquisto dei salari esisteva la “scala mobile”. Poi fu abolita col pretesto che in questo modo si produceva ulteriore inflazione. Ma ciò che rese possibile la svolta fu in realtà la debolezza del movimento sindacale.

È bene chiarire che l’inflazione (ammesso pure che la scala mobile possa produrre ulteriore inflazione) è in fondo, così come abbiamo visto, un epifenomeno, perché, in realtà, il valore della moneta è un valore puramente nominale.

Non è chiaro?

Mettiamola così: c’è un lavoratore con uno reddito, di 1500 euro mensili che paga 500 euro di pigione. All’improvviso i prezzi raddoppiano e deve pagare 1000 euro per la casa. Una tragedia. A meno che non raddoppi anche il suo stipendio: 3000 euro al mese.

Ma così i prezzi non aumenteranno all’infinito? No!

Perché dipende dalla rimozione dei motivi originari dell’inflazione. In ogni caso, se si vogliono azzerare le spinte inflattive della scala mobile, si può sempre intervenire con misure di fiscalità generale a favore dei più deboli (patrimoniale e/o aumento della progressività per i redditi più alti; tassazioni sulle transazioni internazionali e sui proventi delle multinazionali etc).

A questo punto si potrebbe anche avanzare una ipotesi per trasformare la scala mobile, da strumento puramente difensivo, a strumento in grado di produrre una ridistribuzione del reddito in senso più egualitario. Si potrebbe, per esempio, calcolare la cifra da recuperare non sulla base del reddito individuale, ma distribuendo una cifra uguale per tutti.

Per spiegarci meglio facciamo una ipotesi concreta.

Stando ai dati attuali, l’inflazione nel 2022 sarà presumibilmente dell’8%. Considerato che il reddito medio disponibile pro capite in Italia è di 20.000 euro circa, si potrebbe calcolare un recupero di 1600 euro (pari per l’appunto all’8% di 20.000 euro) uguale per tutti, escludendo magari i minorenni e mettendo limitazioni verso l’alto. In sostanza ne avrebbero diritto tutti coloro che hanno un reddito che va da zero fino, mettiamo per ipotesi, 30.000 euro. Da questa cifra a salire il recupero si assottiglierebbe progressivamente fino ad azzerarsi, per esempio per i redditi superiori a 70.000 euro.

Naturalmente si tratta di una ipotesi “di scuola”, visto che con gli attuali rapporti di forza, la stessa scala mobile tradizionale appare quasi come una chimera. Ma proprio per questo è bene sapere che gli ostacoli sono di natura politica e non di fattibilità tecnica.

Un’ultima precisazione. Qualcuno potrebbe pensare che una simile ipotesi di “monetizzazione” dell’inflazione, scontrandosi con le politiche europee e con le logiche della BCE, sarebbe fattibile solo con un ritorno alla Lira.

Errore!

È vero che abbiamo detto che la moneta non ha valore intrinseco ma solo nominale. Ma questo vale per il mercato interno. Sul piano globale il valore di una moneta è legato alla potenza politica, economica e militare dello Stato che l’ha emessa. Tornare alla lira significherebbe subire un enorme svalutazione della nostra moneta, che ci permetterebbe di esportare di più, ma che innalzerebbe enormemente il prezzo delle importazioni, non solo dei beni ad alto contenuto tecnologico, ma anche dei beni primari di cui scarseggiamo (agroalimentare, materie prime, fonti energetiche) mettendoci nella tipica posizione dei paesi poveri.

Le operazioni di monetizzazione, che riguardino l’inflazione o il debito pubblico (di cui mi sono occupato in altro luogo), sono possibili solo con le monete “forti”, quelle ufficialmente riconosciute dal Fondo Monetario Internazionale come base per le sue operazioni (Dollaro, Sterlina, Euro, Yen giapponese e Yuan cinese). Per i paesi poveri non c’è altra soluzione che battersi per mutare i rapporti di forza.