Mai come in questi tempi si è avvertito il bisogno di avere risposte chiare e inequivocabili. Un eccellente esempio di giornalismo d’inchiesta è rappresentato dal docufilm La fabbrica dell’ignoranza di Arté, da cui le seguenti riflessioni prendono spunto.

Il titolo evidenzia l’ignoranza strategica in quanto sistema utilizzato dall’industria in generale (del tabacco, della plastica, dei pesticidi ecc.) per screditare le prove scientifiche che dimostrano la pericolosità e tossicità dei loro prodotti.

È una tecnica sottile e astuta che mira a smontare la credibilità degli studi accademici pubblici critici rispetto all’industria. E lo fa finanziando massicciamente ricerche private che sfornano caterve di dati spesso contraddittori tra loro e soprattutto opposti ai dati “pubblici” allo scopo di confondere, di seminare il dubbio sulle evidenze scientifiche e di distogliere l’attenzione dai rischi impliciti nei prodotti in questione. Creano così una forma di ignoranza strategica, magari avvalendosi di eminenti accademici, di famosi “luminari” che poi si rivelano essere al soldo delle lobby industriali.

Questo metodo fu inaugurato negli anni ‘50 dall’industria del tabacco, che per negare il legame tra fumo e cancro, sempre più evidente, finanziò moltissimi studi volti a dimostrare che il fumo non era l’unica origine dei tumori polmonari e che al massimo poteva essere considerato una concausa non primaria. Negli USA seguirono processi esemplari intentati contro i big del tabacco: una prima commissione d’inchiesta chiese formalmente ai responsabili dell’industria se sapessero che il fumo induceva il cancro e tutti risposero di no appoggiandosi agli studi “scientifici” da loro finanziati. Ma nel 2014, grazie a qualche migliaio di documenti fatti trapelare da una gola profonda, un whistleblower interno, risultò evidente la loro malafede e una nuova commissione d’inchiesta intimò la pubblicazione di tutti i dossier fino ad allora secretati. Alla fine saltarono fuori diverse decine di milioni di documenti, oggi conservati in un’università di San Francisco: tutti dimostravano come i produttori avessero piena consapevolezza della pericolosità del tabacco. Sul tema lobby del fumo e casi processuali verte anche il film Thank You for Smoking (2006, regia di Jason Reitman).

Altro esempio significativo è quello del Bisfenolo A, largamente utilizzato per produrre bottiglie di plastica, biberon (fino al 2011) e contenitori nel settore alimentare e farmaceutico. Questa sostanza si comporta come un estrogeno ed è in grado di indurre scompensi ormonali, fino a provocare tumori mammari, obesità e infertilità maschile, nonché vari problemi nei neonati.

Al momento l’Unione Europea ne ha proibito l’uso soltanto nei biberon per neonati, ma il Bisfenolo A continua a essere presente nelle bottiglie di acqua minerale e in genere in tutti i contenitori plastici alimentari. È dunque fortemente consigliabile cercare sempre la scritta “senza BPA”.

Questa tossicità era nota fin dagli anni Novanta, ma l’industria della plastica finanziò studi che ne attestavano la sicurezza e stabilivano che effetti tossici misurabili si verificavano solo al di sopra di una certa dose minima. Ciò contrastava con quanto dimostrato da ricercatori indipendenti, secondo cui gli effetti si manifestavano anche a dosi migliaia di volte inferiori alla minima “ufficiale”. Ma tant’è, l’obiettivo era seminare il dubbio grazie a prove di laboratorio di opposta valenza.

In questo caso il trucco, grossolano ma rivelatosi a lungo vincente, consisteva essenzialmente nello stabilire un protocollo di ricerca che misurava l’aumento di tossicità in dosi crescenti di BPA sempre sopra la famosa soglia convenientemente stabilita a priori: tutte le ricerche sulle dosi inferiori erano bollate in partenza come prive di valore scientifico. Questo trucco ha permesso all’industria di agire indisturbata (e di guadagnare) per decenni.

Un gravissimo effetto di questa prolungata esposizione al BPA praticamente dell’intera popolazione mondiale è che oggi risulta impossibile effettuare rigorosi studi epidemiologici di confronto fra chi sia stato esposto oppure no a tale sostanza, essendo la contaminazione ormai universale. È impressionante pensare che siamo tutti impregnati di BPA.

Gli ultimi anni ci hanno dato il colpo di grazia con i pesticidi neonicotinoidi, all’origine di devastanti stragi delle api. Le industrie produttrici hanno allora lanciato una campagna tesa a evidenziare una serie di cause possibili di tale moria, tutte plausibili di per sé, come riscaldamento climatico, consumo di suolo, parassiti degli alveari ecc., ma non in grado di giustificare, nemmeno a effetti congiunti, la velocità di sterminio delle api. Si soprassedeva sul fatto che tali concause esistevano anche prima e che il fenomeno è diventato di proporzioni allarmanti proprio in coincidenza con l’introduzione nel mercato di questa nuova classe di pesticidi. Ma anche qui ciò che conta è confondere le idee, consentendo ai decisori politici, europei e non, di continuarne l’uso.

La stessa logica sta prevalendo rispetto al 5G, una vicenda ancora in pieno sviluppo.

Una situazione ancora più confusa si è creata con la pandemia di Covid. In questo caso ambedue le parti interessate hanno probabilmente giocato con carte truccate. Mentre non si può escludere a priori che Big Pharma abbia tenuti nascosti test sulla effettiva pericolosità dei vaccini, soprattutto perché i protocolli e i contratti di fornitura sono stati coperti dal segreto industriale, il mare di relazioni dissenzienti rispetto alle istituzioni (ne sono state calcolate fino a circa 5.000 al mese) ha fatto emergere una pletora di sedicenti esperti e di sostenitori di oscure trame e macchinazioni. Un esempio estremo è l’ipotesi che nei vaccini sarebbero stati introdotti dei microchip liquidi, attivabili a distanza per controllare le persone. Si è sentito proprio di tutto e oggi, a pandemia non ancora domata, è giunto il momento di concentrarsi sulla salvaguardia dell’habitat per tutelare esseri viventi e territori del pianeta.

Un aspetto interessante dell’inchiesta La fabbrica dell’ignoranza di Arté riguarda un nuovo campo di analisi rivolto a ciò che la scienza non sa, che l’industria, le università e le istituzioni decidono cioè di trascurare, negando finanziamenti a ricerche e a pubblicazioni ritenute controproducenti o di scarso rilievo. Là dentro si nasconde un universo di verità scientifiche destinate all’oblio. A meno che… chissà… Non bisogna confondere la Scienza con le ricerche di laboratorio private, come piacerebbe all’industria in malafede. La Scienza si fonda sul Metodo Scientifico, secondo cui qualunque teoria deve essere supportata dai ragionamenti alla base della sua formulazione. Inoltre deve rendere pubblici i criteri utilizzati per ottenere i dati a sostegno della teoria. In tal modo tutta la comunità scientifica ha l’opportunità di riprodurre i risultati e di confermarli o confutarli. Non c’è spazio per segreti e zone d’ombra. Altrimenti si può parlare solo di pseudoscienza e di procedimenti con esiti non confermabili. La situazione migliorerebbe se si stabilisse una maggiore sinergia fra apparati accademici e strutture industriali, stabilendo protocolli di ricerca di enti indipendenti e accreditati, non di soggetti privati, e tutto ciò nella massima trasparenza, con dati e metodologie resi pubblici. Il fai-da-te assai gradito ai produttori è da guardare con sospetto.

Ma per questo occorre una classe politica determinata a imporsi sull’industria.