Presentiamo la recensione della nostra redattrice al libro di Nicoletta Dosio “Fogli dal carcere, il diario della prigionia di una militante No Tav”, uscito lo scorso aprile per i tipi delle  Edizioni RedStarpress. Al lavoro dell’attivista della Val di Susa hanno partecipato con il loro contributo: Heidi Giuliani, Daniela Bezzi, Valentina Colletta, Emanuele D’Amico e Italo Di Sabato

La liberazione o è collettiva o non è!

Quando nei primi giorni del 2020 iniziò a circolare la notizia di Nicoletta Dosio condotta in carcere alle Vallette di Torino, in molti cercammo informazioni nei social su di lei e sui motivi del suo arresto alla vigilia di Capodanno. Con un certo sgomento apprendemmo che si trattava di un’insegnante di lettere classiche in pensione e che era finita in carcere per aver partecipato a una manifestazione di protesta in Val di Susa. 

Fu così che iniziai a interessarmi alla questione-Tav e ai No Tav, di cui Nicoletta Dosio è una delle voci più autorevoli ed ascoltate e fui travolta da un fiume in piena: decine e decine di denunce, arresti domiciliari e carcerazioni gravano da anni su intere generazioni di attiviste/i che difendono la Val di Susa dallo scempio, dalla devastazione ambientale per la realizzazione di un’opera che a trent’anni dalla progettazione appare – a detta di molti esperti – inutile.

Con il diario dei tre mesi di prigionia, Nicoletta Dosio ci conduce in una sezione femminile delle carceri italiane della nostra contemporaneità, e ci mostra cosa avviene in questi siti istituzionali di rieducazione che si rivelano essere luoghi di barbarie, di angherie e sopraffazioni esercitate innanzitutto dalle secondine sulle prigioniere.  Giunta in carcere, lei sperimentava infatti sul proprio corpo l’umiliazione non solo di doversi denudare ma anche di essere costretta a compiere flessioni da due giovani ragazze in divisa –  “Prima ti sbrighi, prima hai finito” –  prive  di educazione e soprattutto di umanità. 

L’attivista No Tav racconta di aver preso in questo modo atto di un contesto straniante di lavoro, una enorme fabbrica in cui “la materia prima”che si manipola  “sono i “corpi e cervelli rinchiusi” delle/dei detenute/i, dato che “il fine esplicito e istituzionale del carcere” consiste di fatto nella volontà  “di ridurre all’obbedienza cieca”,  di annientare ogni coscienza critica e di azzerare ogni forma di autonomia. Del resto, a cosa servirebbero se non proprio a questo “lo stravolgimento dei tempi e degli spazi”, come la cena alle cinque del pomeriggio, “l’irrazionalità degli ordini, la sistematica repressione di ogni obiezione, la violenza psicologica e l’umiliazione delle perquisizioni corporali” anche dopo i colloqui con i familiari che si svolgono sotto il controllo delle guardie, “le battiture dei blindi nelle ore più improbabili, le celle buttate all’aria per cercare il nulla assoluto, l’obbligo di domandina scritta al direttore per le cose più ovvie” e ancora “la prepotenza delle guardiane che negano o concedono ad arbitrio, il sentir chiamare <Africa>, <India>, <Cina>” per cancellare il nome e il cognome delle detenute?

Come sfuggire a queste condotte di soggiogamento della coscienza individuale? Per non smarrire sé stessa, Nicoletta Dosio narra nel suo diario di essersi ritagliata momenti di solitudine e di riflessione soprattutto in biblioteca – la sua vera ora d’aria – e di aver praticato un’autodisciplina per “non cadere nell’insidia dell’autocommiserazione”, come le suggeriva Rosa Luxemburg dalle pagine del carcere di Wronke: Rimanere un essere umano è la cosa principale (…) Rimanere umani significa gettare con gioia la propria vita “sulla grande bilancia del destino” quando è necessario farlo, ma al contempo gioire di ogni giorno di sole e di ogni bella nuvola. Così, in quei giorni di reclusione, Nicoletta fissa nel diario il suo proposito di immergersi in ogni “scampolo” di cielo come in un bagno rigenerante e salvifico. Una domenica mattina di gennaio, ad esempio, si sofferma a raccontare che nella solitudine dell’angusto cortile “sotto il rettangolo di cielo intensamente azzurro” attraversato dal canto corale delle detenute che avevano scelto di partecipare alla celebrazione della messa nella cappella, era riapparso nella sua memoria lo splendore del chiostro del monastero di Santa Chiara di Napoli decorato dalle maioliche di Capodimonte, e il suo sguardo aveva percepito il sorriso del cielo segnato dall’improvviso “volo di colombi”. Molteplici sono i segni del creato che aveva imparato a riconoscere: il corvo che giungeva dall’oriente, “segno sicuramente fausto per gli antichi aruspici”; il canto del merlo che annunciava la primavera fino alle grate della sua cella; la luna che una sera le si era presentata tra le sbarre con “il grande volto triste reclinato” e l’aveva portata coll’immaginazione alla sua valle, ai “boschi della Clarea”, fino alla sua casa e ai suoi animali – la “compagna luna” a cui un’altra volta aveva chiesto di portare conforto a una detenuta gravata da problemi psichici e abbandonata nuda “nella sua cella di rigore”.

Un giorno, mentre era come al solito alla ricerca in tutto quel cemento di ”una crepa, una fessura” da cui potesse trapelare “magari un filo d’erba”, le era capitato di incontrare la “coccinella bambina” che era riuscita a mettere in salvo da una pedata durante l’ora d’aria nel cortile e che dalle sue mani aveva preso il volo sfoderando “incredibili e delicatissime ali”. Un’attenzione agli esseri minuscoli colta da Nicoletta anche in altre detenute, come la donna della comunità sinti che aveva raccolto e liberato “oltre le sbarre” il primo scarafaggio apparso a marzo dinanzi “agli stivaletti della sorvegliante” che incredula aveva esclamato: “Perché non l’hai schiacciato?” . Un esempio d’incomunicabilità tra detenute e guardiane che Nicoletta aveva annotato nel suo diario già all’arrivo alle Vallette quando aveva recepito nei suoi confronti “una solidarietà naturale, una simpatia istintiva” da parte delle compagne di sventura “perché netta è la barriera tra chi è carceriere e chi è carcerato”.

Nicoletta Dosio registra accanto a questa maniera di solidarizzare anche forme di complicità tra detenute scaturite dall’ironia che tante volte era servita a sdrammatizzare le pesanti circostanze di vita tra quelle mura. Per esempio, una grigia mattina di fine febbraio si era colorata d’allegria per lei e la sua compagna di cella dopo la scoperta della scomparsa dalla croce di legno appesa alla parete dell’ “uomo crocifisso”, probabilmente evaso grazie a una detenuta che al momento della scarcerazione gli aveva trovato posto nel piccolo bagaglio preparato in tutta fretta. Oppure, quando in piena pandemia, nel marzo del 2020, la sanificazione dei locali si era trasformata in un gioco d’acqua divertente soprattutto per le detenute più giovani, prima che l’arrivo delle guardiane riportasse “l’ordine e la depressione di sempre”.

Tra questi ritagli di vita all’interno di un luogo segnato dallo “sferragliare” continuo di chiavi che aprono e chiudono cancelli, Nicoletta Dosio privilegia nelle sue pagine di diario la volontà delle detenute di non arrendersi alla disumanità del carcere grazie all’opera quotidiana di fare spazio almeno a una parvenza di normalità. Così, quando veniva loro concesso di andar a far visita alla compagna della cella vicina, non mancavano di sistemarsi e portare con sé frutta secca e biscotti da condividere; oppure, in occasione dei colloqui con i parenti – mentre Nicoletta Dosio andava incontro a Silvano, il compagno d’una vita,  esse riponevano “sui tavolini bottigliette di caffè, qualche merendina da consumare insieme, qualcosa da offrire” per non “snaturarsi”. Tutto ciò avveniva prima che la pandemia privasse lei e le altre anche di queste boccate d’aria che giungevano dall’esterno.

Ma l’aria fuori dal carcere rimane pur sempre viziata da luoghi comuni e rigidità di pensiero nei confronti di chi patisce quelle misure estreme e Nicoletta Dosio riferisce di aver avuto modo di sperimentarlo durante la breve uscita per ritirare il referto della biopsia in ospedale. In manette per la prima volta in vita sua, aveva osservato l’imbarazzo generale e “l’atmosfera surreale”: addirittura il medico, che pure la conosceva, aveva sfoderato “una maschera di impersonalità”; l’unica nota di calda partecipe umanità e complice solidarietà era giunta dalla voce dell’infermiera che in ultimo aveva trovato la forza di farsi avanti: Sono anch’io della Valle, sono anch’io una No Tav. Un miracolo! – aveva commentato Nicoletta riportando l’accaduto alle compagne carcerate. Un miracolo vero e proprio, a dimostrazione che “il dolce coraggio di una donna”  può abbattere ogni muro di ipocrisia e codardia.

Questi Fogli dal carcere torinese delle Vallette hanno il valore di una testimonianza e confermano la fiducia e la speranza che l’autrice ripone in una lotta contro le ingiustizie a salvaguardia dell’umano. Dopo il suo “passaggio” in galera le detenute di Torino hanno avviato una campagna di sensibilizzazione rivolta all’opinione pubblica mettendo in campo precise richieste al fine di migliorare le loro condizioni di vita, perché, come scrive Nicoletta Dosio, ”la liberazione o è collettiva o non è”.