Nella giornata odierna di 104 anni orsono, il 18 luglio del 1918, nel villaggio di Mvezo, nell’Eastern Cape del dominion inglese del Sudafrica, nasce Rolihlahla Mandela, del clan Madiba. Il padre era consigliere del re del popolo Thembu. Era ancora in corso la cruenta Prima Guerra Mondiale e in Sudafrica, a seguito del Native Land Act del 1913, che vietava agli Africani di possedere la terra al di fuori delle riserve, si creavano i presupposti del sistema dell’apartheid.

Novantacinque anni dopo, il 10 dicembre del 2013, ai suoi funerali, il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama lo definirà «un gigante della storia, l’ultimo grande liberatore del Ventesimo secolo».

La famiglia di Mandela apparteneva all’élite degli Xhosa, anche se osservando la fotografia della sua casa natale, pubblicata nel documentato sito della Nelson Mandela Fondation, si constata che era poco più di un’ampia capanna. Frequenta una scuola elementare della Chiesa Battista, durante la quale la sua insegnante gli impone il nome inglese di Nelson, come da diffusa consuetudine dell’universo coloniale africano. Pur rimanendo orfano del padre a dodici anni, la sua famiglia allargata gli permette di completare la sua formazione fino all’università. Studia legge all’University College di Fort Hare, dal quale è espulso per aver partecipato a una protesta studentesca, e all’Università di Witwatersrand.

La formazione europea acquisita in questo percorso scolastico, reso possibile non dalla Stato, ma dalle istituzioni religiose, s’innesta nella sua cultura profonda africana, di tradizione orale, a partire dai racconti degli anziani sulla resistenza contro l’occupazione coloniale. Scriverà a posteriori Mandela: “Ho fatto tutto ciò che ho fatto, sia come individuo, sia come leader del mio popolo, grazie alla mia esperienza in Sudafrica e al mio background africano orgogliosamente sentito”.

Rinvio alla sua fortunata autobiografia, Long Walk to Freedom, tradotta in moltissime lingue, compresa quella italiana, con il titolo, Lungo cammino verso la libertà, nella quale con uno stile asciutto, mai retorico, ripercorre la sua straordinaria vicenda umana e politica, dall’infanzia nelle campagne del Transkei, alle township di Johannesburg; dalla militanza nell’ANC, attraverso ventisette anni di carcere, al Premio Nobel per la pace e alla presidenza della repubblica, sempre intrecciata con la storia drammatica del Sudafrica e più in generale dell’intero continente africano.

L’adesione, nel 1944, all’African National Congress, una sorta di Comitato di liberazione nazionale, è decisiva nella vita di Mandela, che ne diventa rapidamente un dirigente di primo piano, organizzando la Youth League al suo interno e sostenendo una politica di massa più radicale.

Assieme a Oliver Tambo apre, nel 1952, il primo studio legale di avvocati africani. Il riferimento a Gandhi, che proprio in Sudafrica, nei due decenni a cavallo dell’Ottocento e del Novecento, aveva esercitato la professione di avvocato per difendere gli immigrati indiani dal razzismo bianco, è d’obbligo. Lo è per comprendere l’influenza profonda che le teorie e le pratiche della resistenza passiva e della non violenza ebbero nel pensiero e nell’azione di Mandela, anche se nei primi anni Sessanta, di fronte alla sanguinosa repressione di ogni forma di protesta, aiuta a fondare il braccio armato dell’ANC, Umkhonto weSizwe (spada della nazione). Dopo alcuni anni di clandestinità, è arrestato assieme ad altri nove dirigenti dell’ANC e, nel giugno del 1964, è condannato all’ergastolo e rinchiuso nel carcere di Robben Island. Il carcere, grazie all’intelligente azione di Mandela, si configurò progressivamente come uno spazio autogestito di scambio e formazione per i prigionieri politici, anche durante il faticoso lavoro nelle cave di calce e nei pozzi delle miniere. Seguivano lezioni regolari, organizzate in segreto, durante le quali si studia la Bibbia, il Corano, il Capitale, ma anche le tragedie di Shakespeare, tanto che la prigione fu chiamata The Robben Island University e, più tardi, Nelson Mandela University. Dai dibattiti con i prigionieri e dai colloqui con le guardie bianche, nel corso degli anni, Mandela matura una maggiore consapevolezza ideologica da cui avrebbe attinto quando avrebbe discusso con il governo su una nuova costituzione sudafricana.

Nei lunghi anni della prigionia Mandela riscopre e approfondisce la filosofia e la pratica, diffusa nell’Africa precoloniale, chiamata nella comunità Xhosa Ubuntu. Mandela stesso ne ha descritto il contenuto essenziale: “In Africa esiste un concetto chiamato Ubuntu, il cui senso profondo è che noi siamo uomini solo grazie all’umanità altrui e che se, in questo mondo riusciamo a realizzare qualcosa di buono, il merito sarà in egual misura anche del lavoro e delle conquiste degli altri”.

Proprio ricorrendo alla tradizione dell’Ubuntu, Mandela e il suo grande amico, l’arcivescovo anglicano Desmond Tutu, nel 1995, creeranno e animeranno la Commissione per la Verità e la Riconciliazione, per evitare che il paese arcobaleno precipitasse in rancori e vendette per i tanti torti subiti nell’era dell’apartheid.

Un segnale in questa direzione era stata, il 10 dicembre del 1993, l’assegnazione del premio Nobel per la pace congiuntamente a Nelson Mandela e a Frederik Willem de Klerk, il presidente del Sudafrica che, tre anni prima, lo aveva rilasciato dopo la pluridecennale prigionia, concordando con lui una transizione pacifica al governo della maggioranza. Il premio Nobel per la pace, infatti, era loro: “Per il loro lavoro per la fine pacifica del regime dell’apartheid e per aver gettato le basi per un nuovo Sudafrica democratico”.

I due premiati negoziano lo smantellamento del regime dell’apartheid e l’introduzione del suffragio universale; l’anno successivo, a seguito delle prime elezioni libere, il leader carismatico dell’African National Congress (ANC) è trionfalmente eletto presidente della repubblica.

Finito il primo mandato, nel 1999, nonostante le molte pressioni del suo partito, differentemente dalla prassi diffusa nei paesi ex coloniali, si ritira dalla vita politica attiva, divenendo, grazie anche al suo prestigio interno e internazionale, un’icona della mobilitazione e lotta contro le ineguaglianze economiche e per la difesa dei diritti umani, al fine di fare del Sudafrica una pacificata “nazione arcobaleno”.

Mandela muore nel 2013, all’età di novantacinque anni, per un’infezione polmonare dovuta alla tubercolosi contratta a causa delle condizioni igieniche e alimentari degli anni della prigionia. Il 10 dicembre si tiene una grande cerimonia pubblica, con decine di migliaia di presenti, persone comuni e, mescolati con esse, Bono degli U2 e Naomi Campbell. La cerimonia si svolge nello stadio di Soweto, il cuore, per decenni, della resistenza africana. Gli rendono omaggio un centinaio di capi di Stato e di governo di tutto il mondo. Tra questi anche George Bush e Barack Obama che pronuncia un commosso discorso. Vale la pena riprodurne un passo pregnante: «Ha reso me un uomo migliore. Non vedremo mai un altro come Mandela, ma i giovani devono ispirarsi alla sua capacità di cambiare quel che sembra impossibile. Trent’anni fa, quando ero ancora uno studente, ho conosciuto Mandela e la sua lotta. Ha mosso qualcosa in me, ha risvegliato le mie responsabilità verso gli altri e verso me stesso. E mi ha condotto verso un improbabile cammino che mi ha portato oggi qui». (Interris)