“I Paesi che non intendono partecipare al processo di abolizione delle armi e dei test nucleari dovrebbero provare vergogna perché sono complici di un’idea di distruzione. Non esiste una pianeta B e noi giovani abitanti del Pacifico lo sappiamo bene, paghiamo ancora le conseguenze degli esperimenti atomici e intanto affrontiamo ogni giorni gli effetti del cambiamento climatico”. A parlare è Krystal Elizabeth Selwood Juffa, attivista e poetessa di 25 anni originaria della Papua Nuova Guinea, ma residente alle Samoa, arcipelago nel cuore dell’Oceano Pacifico.

L’agenzia Dire la intervista telefonicamente mentre a Vienna, oltre 10mila chilometri più a est, è in corso da oggi fino a giovedì la prima riunione degli Stati parte del Trattato per la proibizione delle armi nucleari (TPAN), entrato in vigore nel gennaio 2021, tre mesi dopo la ratifica del 50esimo Stato. In concomitanza del summit è stata organizzata nella capitale austriaca la Nuclear Ban Week, la settimana internazionale di eventi e mobilitazioni per la messa al bando delle armi nucleari cominciata già nei giorni scorsi.

Il governo italiano, nonostante le campagne di Rete italiana pace e disarmo, Senzatomica, Disarmisti esigenti e numerose realtà cattoliche, ha deciso di disertare la conferenza sul TPAN, alla quale avrebbe potuto partecipare solo in veste di Paese osservatore in quanto non è neanche firmataria del Trattato. Il nostro è l’unico Paese dei quattro dell’Unione Europea a ospitare testate nucleari Nato che non prenderà parte al summit.

E’ anche al nostro Paese quindi, che si rivolge Juffa quando afferma che “è egoistico e anche un po’ ridicolo” non impegnarsi per la messa al bando delle armi nucleari “per mere questioni di potere”, visto che questi strumenti “sono una reale minaccia per l’esistenza della specie umana”. L’artista, che si definisce anche pittrice e cantante, parla del tema con la consapevolezza che può avere in merito un’abitante della regione del Pacifico, teatro lo scorso secolo di centinaia di test sulle armi atomiche condotti dagli Stati Uniti e dalla Francia. Nel 2019 l’Eliseo ha riconosciuto per la prima volta che i suoi esperimenti hanno avuto conseguenze sulla salute della popolazione locale, e documenti declassificati del ministero della Difesa di Parigi hanno attestato che i cittadini polinesiani sono stati più volte sottoposti a livelli di radiottività fino a 500 volte superiori al livello massimo consentito.

C’è tutto questo quindi nella poesia che nei giorni scorsi Juffa ha composto e poi recitato in un video, e che è stata rilanciata dall’iniziativa Navigating the Nuclear Nightmare (NanNuc), promossa dalla Pacific Youth for the Tpnw e dalla rete di associazioni neozalendesi Peace Movement Aotearoa. Diversi degli attivisti di queste organizzazioni sono in Austria in questi giorni. Il componimento di Juffa è rivolto agli abitanti dell’atollo di Enewetak, parte del territorio delle Isole Marshall, evacuato con la forza dagli Usa dopo la fine della seconda guerra mondiale per poter fare da base a decine di test nucleari.

E’ qui che è esplosa per la prima volta nella storia una bomba a idrogeno, la cosiddetta Ivy Mike, nel 1952. L’attivista, figlia di un leader della comunità originaria papuana degli Hunjarah, definisce la sua poesia “un messaggio e una sorta di testamento” che vuole “affrontare il dolore cha abbiamo vissuto”, ma anche “un appello e un monito al mondo: senza le nostre risorse e senza il nostro oceano non succederà niente di buono”.

La poetessa concepisce il contrasto alla minaccia nucleare come parte di una più ampia mobilitazione contro gli effetti del cambiamento climatico, rispetto ai quali la regione del Pacifico è probabilmente la più vulnerabile al mondo. “Le immagini che vedete nei film apocalittici qui sono una realtà quotidiana: innalzamento del livello del mare con il rischio di essere letteralmente portati via dalle acque, foreste distrutte”, denuncia Juffa, che prosegue, anche in riferimento a un fenomeno che da anni è al centro delle iniziative della società civile del Pacifico: “Ora il nostro mare rischia anche di essere scavato e di diventare una miniera con l’estrazione mineraria in acque profonde”.

Questioni, quelle delle conseguenze dei cambiamenti climatici e del nucleare, che nell’atollo di Enewetak rischiano di saldarsi pericolosamente: su uno dei suoi isolotti si trova infatti un enorme deposito di detriti radioattivi, di cui già da anni si denuncia lo stato di deterioramento e che potrebbe rischiare di creare problemi qualora venisse colpito da un evento estremo come un tifone, in rapido aumento in tutto il mondo.

Di fronte a scenari così foschi, il “piccolo mondo dei Paesi in via di sviluppo come i nostri, che sono in prima linea, deve far sentire la sua voce”, scandisce l’attivista. “Non abbiamo altre isole dove migrare, dobbiamo farci sentire contro questa distruzione della nostra cultura, dei nostri sistemi di sussistenza, del nostro futuro”. Una lotta che guarda lontano ma che parte dal mare, “la nostra fonte di vita”, afferma Juffa, che conclude: “Il mio Oceano si chiama Pacifico, cioè di pace, e questo è tutto quello che voglio come giovane abitante di questa regione”.