Si è concluso ieri notte tra i fuochi d’artificio il festival della zona universitaria Le monde est a nous.

Mentre la battaglia per lo spazio imperversa, la zona universitaria autorganizzata e autogestita ha levato altissimo il suo grido di desiderio, di rabbia, di gioia: vogliamo una vita bella!

Lo abbiamo lasciato scritto sui muri di via Zamboni, della nostra strada, a chiare lettere. In perfetto disaccordo con la Sovrintendenza e il suo desiderio di preservare un patrimonio UNESCO che è anche garanzia di silenzio, abbiamo preso voce, parola, spazio e abbiamo lasciato un pezzetto di storia molto più importante per noi di qualsiasi portico: un pezzetto della nostra storia, non tanto del passato quanto del presente, del futuro, un pezzetto di quella storia fatta di precarietà, sfruttamento, paure ma anche di rabbia, di gioia nell’intrecciarci, incontrarci, riconoscerci, di ambizione ad un mondo diverso, il nostro mondo. Mentre i giornali additano i nostri murales e le nostre scritte sui muri come atti di vandalismo, per l’ennesima volta noi ce ne riappropriamo e affermiamo con certezza che la storia di quei muri non è raccontata da una sterile vernice arancione ma dai corpi che attraversano quelle strade, dalle lotte che sovvertono la metropoli, dal grido altissimo e feroce, rabbioso e gioioso che si leva da via Zamboni occupata e da tutta Bologna: mentre la Storia è fatta per preservare intatto il passato, la nostra è una storia di storie che si intrecciano in rivoluzione continua ed è questo che da sempre narrano i muri di Bologna.

Non ci basta la dignità, non ci basta accontentarci, non ci basta tirare a campare con pochi soldi e case che cadono a pezzi (per chi ha il privilegio di una casa), non ci bastano le borse di studio sottomesse ai ricatti di merito che ci offre er.go come se fosse una banca: noi vogliamo stare bene.

Ci stanno stretti i saperi inscatolati dell’università, ci sta stretta la merce-cultura che ci viene venduta, ci stanno stretti i confini della norma eteropatriarcale sui nostri corpi, i nostri desideri, la nostra sessualità, la nostra identità.

Ci fa incazzare e ci fa insorgere la “pace” imperialista, la pace che costruisce basi militari, invia armi, finanzia guerre. Ci fa incazzare e ci fa insorgere la violenza che molesta, ferisce, uccide lə nostrə sorellə dissidenti ogni giorno, nel silenzio delle loro case o nel trambusto di una parata militare. Ci fa incazzare e ci fa insorgere la sorveglianza e il controllo sulle nostre vite e sui nostri comportamenti incarnato in una presenza poliziesca che per noi significa confine. Ci fa incazzare e ci fa insorgere che il nostro rettore stringa la mano al ministro della difesa sorridendo alla rigenerazione di aree militari, che la nostra università non interrompa i suoi rapporti con l’industria bellica israeliana e il suo portato di morte sul popolo palestinese, che le bandiere della pace affisse in giro pesino quanto ogni singolo corpo martoriato, privato della possibilità di scegliere per la propria vita, ammazzato da guerre che non lo riguardano.

La zona universitaria non è della polizia, non è del comune, non è di Unibo, non è dell’UNESCO, non è dei palazzinari che speculano sulle nostre vite. È nostra, la costruiamo, inventiamo, assembliamo noi, precariə dalle scuole, dall’università, dai lavoretti sfruttati e sottopagati, con la nostra moltitudine di corpi desideranti. Le piazze, le strade, i saperi che si costruiscono, le relazioni che si tessono, le vite che si intrecciano: il mondo è nostro e lo vogliamo senza confini e militarizzazione, senza guerre, senza sfruttamento.