“L’Italia ripudia la guerra” è l’incipit dell’articolo 11 della Costituzione, approvato il 24 marzo del 1947 dall’Assemblea Costituente. Ci fu un ampio confronto sul verbo da utilizzare: condanna, rinuncia o ripudio? Il presidente della Commissione per la Costituzione, Meuccio Ruini, intervenne in aula per spiegare che «condanna» ha un valore etico più che politico-giuridico, «rinuncia» presuppone la rinuncia ad un bene, ad un diritto, il diritto della guerra che si vuole appunto contestare, mentre la parola «ripudia» ha un accento energico ed implica così la condanna come la rinuncia alla guerra. Nel vocabolario troviamo che ripudio deriva dal latino “repudium”, che rappresenta l’atto di respingere con il piede. Perciò la nostra Costituzione vuole dare un calcio alla guerra. Ma c’è anche qualcosa di più. Si ripudia quando non si vuole più riconoscere come proprio qualcosa o qualcuno con cui si aveva un legame. L’Italia ripudia la guerra, poiché la guerra, purtroppo, l’ha fatta e l’ha conosciuta.

“L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”, recita il primo comma dell’art. 11. A quante guerre ha partecipato l’Italia tra il 1861 e l’approvazione dell’art. 11 della Costituzione? Che cosa ci facevano i soldati italiani in Abissinia, Eritrea, Etiopia, Somalia, Libia, Spagna, Jugoslavia, Albania, Grecia, Cina, Russia, ecc. Quanti crimini di guerra hanno commesso? Che cosa abbiamo fatto per riconoscere l’offesa arrecata alla libertà degli altri popoli? L’Italia ha chiesto seriamente perdono per queste atrocità commesse in terre straniere?

Nel calendario civile italiano non mancano le date per ricordare i nostri morti, ma prima dovremmo ricordare quelli che abbiamo provocato. Lanza del Vasto, apostolo della nonviolenza, sosteneva che i torti degli altri non ci giustificano. Ogni popolo, ogni nazione dovrebbe anzitutto fare memoria dei propri errori, dei crimini che ha compiuto, dei morti che ha causato. Altrimenti non è un vero ripudio, ma soltanto una commemorazione, con il sottinteso che la colpa dei propri morti è sempre degli altri, rischiando così di trasformare i carnefici in vittime. Perciò in Italia sarebbe importante istituire la Giornata del Ripudio della guerra, il 24 marzo, giorno di approvazione dell’art. 11 della Costituzione.

C’è ancora troppa retorica nel ricordare i nostri morti, mentre dovremmo ascoltare di più le ragioni di chi abbiamo offeso e ucciso. Potremmo anzitutto imprimere nella consapevolezza e nella coscienza nazionale le parole pronunciate dall’imperatore etiope Hailé Selassié alla Società delle Nazioni il 30 giugno 1936: «È mio dovere informare i governi riuniti a Ginevra, in quanto responsabili della vita di milioni di uomini, donne e bambini, del mortale pericolo che li minaccia descrivendo il destino che ha colpito l’Etiopia. Il governo italiano non ha fatto la guerra soltanto contro i combattenti: esso ha attaccato soprattutto popolazioni molto lontane dal fronte, al fine di sterminarle e di terrorizzarle. […] Sugli aeroplani vennero installati degli irroratori, che potessero spargere su vasti territori una fine e mortale pioggia. Stormi di nove, quindici, diciotto aeroplani si susseguivano in modo che la nebbia che usciva da essi formasse un lenzuolo continuo. Fu così che, dalla fine di gennaio del 1936, soldati, donne, bambini, armenti, fiumi, laghi e campi furono irrorati di questa mortale pioggia. Al fine di sterminare sistematicamente tutte le creature viventi, per avere la completa sicurezza di avvelenare le acque e i pascoli, il Comando italiano fece passare i suoi aerei più e più volte. Questo fu il principale metodo di guerra». Di questo ecocidio e genocidio dovremmo ancora provare vergogna di fronte all’Etiopia e al mondo.

E se proprio volessimo ricordare che cosa hanno fatto gli altri a noi, prima dei torti dovremmo elencare i meriti. Quando l’imperatore dell’Etiopia ritornò dall’esilio in patria, il 20 gennaio 1941, emanò un decreto in cui faceva appello alla popolazione perché, malgrado i numerosi lutti, agisse con rispetto verso i prigionieri italiani: «Io, Hailé Selassié, vi raccomando di accogliere in maniera conveniente e di prendere in custodia tutti gli italiani che si arrenderanno, con o senza armi. Non rinfacciate loro le atrocità che hanno fatto subire al nostro popolo. Mostrate loro che siete dei soldati che possiedono il senso dell’onore e un cuore umano. Vi raccomando particolarmente di rispettare la vita dei bambini, delle donne e dei vecchi. Non saccheggiate i beni altrui anche se appartengono al nemico. Non incendiate le case». La vicenda etiopica ci ha anche insegnato che la vendetta non è un obbligo.