La crisi idrica sta facendo emergere le responsabilità di un sistema di gestione caratterizzato da una decennale mancanza di pianificazione e investimenti infrastrutturali perché piegato ad una logica privatistica che punta esclusivamente alla massimizzazione del profitto. Inoltre evidenzia come tale sistema sia andato a sovrapporsi al fenomeno del surriscaldamento globale e dei relativi cambiamenti climatici impattando negativamente sulla disponibilità dell’acqua per uso umano, sull’agricoltura e più in generale sull’ambiente.

In Italia abbiamo già avuto una grave crisi nel 2017 ma la situazione attuale è ancora peggiore: il Po, maggiore fiume italiano, dopo inverno, primavera, inizio estate asciutti e montagne senza neve è a livelli minimi. La siccità non sembra più, neanche dalle nostre parti, un evento sporadico, bensì permanente. Il Po da mesi è in crisi, ma nessuno ci badava. Un gruppo di docenti del Politecnico erano andati mesi fa sul greto e avevano fatto una serie di fotografie per far presente la situazione ai ‘decisori’ ma nessuno si è mosso di fronte a questo disastro ecologico frutto anche di un uso irresponsabile del suolo in una unica ottica: la mercificazione. Eppure continuiamo ancora a buttare le acque piovane (quando ci sono) nelle fogne, non le raccogliamo in bacini per le emergenze, non ci si preoccupa di armonizzare le varie esigenze idriche in base alle reali disponibilità, non si interviene per far convivere i bisogni a monte e a valle indipendentemente dalle concessioni che creano rigidità e disparità insostenibili in caso di carenza.

L’eccessiva pressione antropica, insieme concausa e aggravante della crisi climatica, ha finito per abbassare le falde e reso molto più lenta la ricarica; non si è minimamente intervenuti sul dissesto idrogeologico. Tutti questi fattori si legano tra loro.

D’altra parte, i dati ISTAT sulle perdite delle reti idriche sono impietosi: nel 2015 si attestano al 41,4% a livello nazionale (47,9% il tasso di “dispersione” fotografato nel 2019). È evidente che più che allo stato delle reti, si è guardato all’andamento delle azioni.

Oggi i fautori del mercato e delle privatizzazioni, sostengono che le tariffe non forniscono abbastanza soldi per fare gli investimenti. Che qualcosa non torni in queste argomentazioni è molto semplice dimostrarlo: dal 2010 al 2016 le “4 grandi sorelle” (IREN, A2A, HERA e ACEA), società per azioni multiservizi quotate in borsa, in termini cumulati realizzano utili per 3 miliardi di euro e 257 milioni di euro e distribuiscono dividendi per 2 miliardi di euro e 983 milioni di euro ai soci pubblici e privati, pari al 91% degli utili!

I dati quindi ci dicono in maniera palese che i soldi ci sono ma che non sono utilizzati per effettuare gli investimenti e garantire così un servizio essenziale, ma per remunerare gli azionisti (pubblici e privati).

E’ necessaria una radicale inversione di tendenza rispetto al modello attuale, che si può realizzare unicamente con la ripubblicizzazione del servizio idrico e un nuovo sistema di finanziamento, basato sulla leva tariffaria, sulla finanza pubblica e la fiscalità generale. A fronte della situazione di emergenza idrica che si è evidenziata in quest’ultimo periodo di tempo e che comunque ha caratteristiche strutturali, occorre mettere in campo rapidamente alcuni interventi in grado di aggredirla, prevenirla e dare ad essa soluzioni utili. In particolare, tre ci sembrano le misure prioritarie che si possono assumere in tempi brevi:

  • la destinazione degli utili delle aziende che gestiscono il servizio idrico alla ristrutturazione delle reti idriche;
  • incentivi all’ammodernamento degli impianti di irrigazione in agricoltura (ad es. irrigazione a goccia) e all’utilizzo delle acque piovane;
  • incentivi alla realizzazione di reti idriche duali ed all’installazione di dispositivi per il risparmio idrico nell’edilizia di servizio, residenziale e produttiva.

L’Italia detiene il primato europeo del prelievo di acqua per uso potabile. Dal punto di vista degli ecosistemi acquatici, laghi, fiumi, acqua sotterranee, tutte le rilevazioni rivelano uno stato raramente buono e per lo più scarso o cattivo.

La contaminazione più frequente è dovuta agli erbicidi e agli scarichi delle aree industriali attive o dismesse ma non ancora bonificate, come ad esempio quella dovuta ai PFAS in Veneto e ad Alessandria; pesano poi i cosiddetti contaminanti emergenti quali droghe, cosmetici e farmaci.

La contaminazione delle acque di falda, che in Italia sono la principale fonte di approvvigionamento di acqua potabile, determina la necessità di attuare trattamenti per trattenere le sostanze chimiche che diventano sempre più costosi e difficili con l’aumento della complessità delle miscele.

Inoltre non sono stati messi in atto interventi incisivi per migliorare i sistemi di depurazione (ad esempio separando acque nere da quelle meteoriche), bonificare i suoli contaminati e favorire la transizione a pratiche agricole che non facciano uso di fertilizzanti, e pesticidi.

La conversione ecologica riveste una forte rilevanza anche per la salvaguardia del ciclo naturale delle acque. Per quest’ultimo occorre, nello specifico contesto italiano, una serie di interventi:

  • i bacini idrogeologici vanno tutelati per eliminare la contaminazione della falda e riqualificati con riforestazioni a partire da quelli in cui insistono i punti di prelievo di acqua potabile;
  • la quantità di acqua prelevata per le necessità umane deve essere limitata e correlata alle necessità degli ecosistemi a valle dei punti di prelievo;
  • la diminuzione dei prelievi d’acqua deve operarsi da un lato eliminando le perdite di rete (30/40% dell’acqua distribuita) e dall’altra con la realizzazione di reti duali (il 40/50% dell’acqua distribuita è utilizzata per fini non potabili). La pianificazione degli interventi sulle reti deve prevedere quindi la contestuale realizzazione di reti per l’acqua a fini non potabili (acque di minor pregio, di riciclo o piovane);
  • la diminuzione dei prelievi d’acqua producono non solo una riduzione dei costi e dei consumi energetici per pompaggi, trasporto e distribuzione, ma un aumento delle capacità di stoccaggio delle falde e un miglioramento della qualità dell’acqua;
  • la depurazione delle acque deve raggiungere il 100% (attualmente è al 50/60%). Vanno privilegiati gli impianti di piccole-medie dimensioni e quelli di fito-depurazione in quanto garantiscono maggiormente la qualità della acque depurate da immettere in natura, nella produzione agricola e nelle reti duali.

Crediamo sia necessario anche riflettere attentamente sull’attuale modello di pianificazione urbana asservita agli interessi della speculazione immobiliare, che vede città sempre più cementificate e asfaltate, private del verde, che i cambiamenti climatici in atto, la crisi idrica e sanitaria hanno rivelato essere vere e proprie trappole.

Questa situazione dovrebbe spingere a individuare e applicare nuove politiche, nuovi stili di vita in grado di prevenire i disastri, superare ingiustizie, ridurre le clamorose e disumane diversità nelle condizioni di vita delle persone.

Invece si è diffusa la convinzione che bastano le tecnologie, quelle già disponibili e quelle da sviluppare, a risolvere tutti i problemi.

Al posto di evitare sprechi e inquinamenti, si evocano le tecnologie per rimediare ai danni generati dalla speculazione finanziaria, dagli interessi industriali considerati prioritari rispetto a quelli sociali e di salvaguardia dell’ambiente. Le tecnologie che vengono presentate come eco-compatibili, in realtà dipendono ancora per la maggior parte da fonti energivore e fossili, che sono tra le cause principali del deterioramento climatico. In questa ottica tutto si può trasformare in una operazione di greenwashing se non si interviene con una forte mobilitazione.

La risposta alla grande siccità che si è verificata nel 2017 non è stata assolutamente adeguata, tanto è vero che oggi ci troviamo in una situazione ancora peggiore. Mentre molte sono le azioni che si possono mettere in campo per ridurre i consumi e le dispersioni, per riepilogare: sostituendo le obsolete reti di distribuzione irrigua e potabile, controllando sistematicamente i prelievi, spesso fuori controllo, recuperando la capacità degli invasi già esistenti che per carenza di manutenzione si sono riempiti di terra, passando in agricoltura a colture meno idroesigenti.

Non basta un cambiamento marginale per curare questo stato di malattia che rivela un fallimento del sistema. Dobbiamo ricostruire l’ecosistema che stiamo distruggendo e che permette la vita.

Occorre un intervento di respiro e grande qualità che ripari i danni storici con lo sguardo rivolto ai nuovi fenomeni, nella consapevolezza che la gestione rispettosa dell’acqua è alla base della salvaguardia del territorio. Per risanare e adeguare tutto questo a criteri accettabili per un paese civile e democratico, sono indispensabili risorse adeguate. Questa deve diventare una priorità. Dopo l’approvazione della legge di bilancio 2021, il Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali ha sottolineato che sono stati stanziati 630 mln di € per i prossimi 7 anni per investimenti infrastrutturali, per la tutela del suolo, la mitigazione ambientale, il dissesto idrogeologico.

C’è un abisso rispetto ai dati ISPRA, che dice: “26 mld di € è una stima del fabbisogno teorico per la messa in sicurezza dell’intero territorio nazionale, da attuarsi attraverso piani pluriennali di finanziamento”. Dato che la messa in sicurezza del territorio è uno dei titoli previsti dal Recovery Plan occorre che questa grande opera utile venga messa in condizioni di essere veramente attuata con interventi pianificati su tutto il territorio, con scelte decise anche nei confronti dei piani urbanistici a partire dalla rigorosa definizione delle aree di salvaguardia delle acque destinate consumo umano e dall’inserimento dei misuratori di portata sui prelievi idropotabili per evitare emungimenti dannosi alla falda.

E’ necessario migliorare la qualità delle acque superficiali e di falda, intervenire per rinatulizzare i versanti collinari e montani, le sponde di fiumi e canali, restituire ad uso ambientale e paesaggistico naturale di aree compromesse da fabbricati ex industriali ora dismessi e abbandonati. In definitiva, si tratta di mettere in campo un intervento relativo alla “Tutela del territorio e della risorsa idrica”, che nell’arco dei prossimi 5 anni costruisca investimenti pubblici, tramite il Recovery Plan, nella seguente misura:

  • 2 mld di € per la ripubblicizzazione del servizio idrico, da utilizzare nel primo anno di intervento;
  • 7,5 mld. di € (cui aggiungere risorse provenienti dai soggetti gestori per circa ulteriori 2,5 mld) per la ristrutturazione delle reti idriche;
  • 26 mld. di € (di cui 50% provenienti dal Recovery Plan e il restante 50% da ulteriori fonti di entrata) per il riassetto idrogeologico e la messa in sicurezza del territorio.