Questa storia, capitata all’aeroporto di Lamezia, mi ha visto personalmente coinvolto nella vicenda

E’ sabato 4 giugno, il bus approntato dall’organizzazione dell’evento “Contro la criminalizzazione della solidarietà” ci ha già portati da Riace in aeroporto, nel quale giungiamo alle 14.30 circa, siamo in tanti a partire per diverse destinazioni, io per ultimo: il mio volo per Torino parte alle 18.50.

Sono circa le 16 quando sento urlare nel terminal, vedo un ragazzo di origine subsahariana che esce dalla sezione partenze urlando. E’ visibilmente agitato. Cerco di capire, viene avvicinato da due agenti di Polizia di stanza in aeroporto, lui continua ad urlare.

Mi trovo di fronte ad una scelta: comportarmi da giornalista, limitandomi quindi ad osservare la situazione, o giocarmi in prima persona. Una sorta di imperativo categorico mi fa scegliere la seconda opzione.

Lui intanto si piazza davanti all’entrata delle partenze, mi dirigo là, è tutto sudato nonostante l’aria condizionata, si siede per terra urlando che nonostante avesse il regolare biglietto non lo hanno fatto partire. Mostro la mia tessera di giornalista ad uno degli agenti, intanto tre membri della sicurezza aeroportuale si dispongono a presidio dell’entrata partenze.

Capisco perché non è riuscito a partire: ha la carta d’identità cartacea divisa in due, quindi non valida, motivo per il quale gli addetti della compagnia al gate d’imbarco non l’hanno accettato.

Cerco di calmarlo, mi rendo conto che la sua agitazione deriva dalla disperazione. Deve andare a Torino, un volo precedente al mio con scalo a Roma, non è partito e ha perso i soldi del biglietto. Sia gli agenti di polizia che quelli della sicurezza cercano di spiegare che non dipende da loro, io però in quel momento ho un altro problema: la sua disperazione, la avverto chiaramente, cerco di parlargli per calmarlo, trattenendo a stento le lacrime.

Aveva un programma, questo è saltato, si trova solo in aeroporto senza sapere cosa fare, in una situazione di fatto per lui d’emergenza che non sa come risolvere. Anche gli agenti di Polizia comprendono, mi dicono tra l’altro che lui è regolarmente in possesso di un documento di soggiorno.

Parlo con uno degli agenti, mi pare quello di grado superiore, dicendogli che questi ragazzi hanno sulle spalle un viaggio doloroso, soprattutto se sono passati dalla Libia, sono spesso affetti da stress post-traumatico e che quando incontrano le difficoltà della vita in Italia, la loro situazione psicologica si fa molto fragile, che è un fenomeno purtroppo sempre più diffuso. Lui capisce, glielo leggo negli occhi.

Riesco in parte a calmarlo, l’altra mia preoccupazione è che oltrepassi un limite che potrebbe imporre agli agenti d’intervenire, con esiti per lui ovviamente dannosi. Vive in un centro di accoglienza SAI nel cosentino, chiama un responsabile del Centro, ma è troppo agitato, prendo il telefono anche su suggerimento degli agenti e gli parlo io spiegandogli la situazione. Lui risponde che avrebbero cercato di capire come fare.

Anche gli agenti di PS assistono e ascoltano la telefonata in vivavoce, lui sembra in parte calmarsi, gli agenti gli dicono: “Dai, andiamo a mangiare qualcosa”. Lui raccoglie i suoi averi e si dirige verso la zona arrivi, a quel punto lo lascio, la situazione mi pare rientrata. Esco quindi a fumarmi una sigaretta.

Quando rientro V. è però di nuovo agitato, gli chiedo se fuma, lui risponde affermativamente, l’agente di Polizia mi lancia un’occhiata d’intesa, lo porto quindi fuori dall’aeroporto per fumarci una sigaretta, mi faccio raccontare la sua storia: è nato in Nigeria. La sua storia è quella di tanti suoi connazionali: la partenza, il transito in Niger, l’arrivo in Libia e poi la partenza sul barcone alla volta dell’Italia. Un viaggio interminabile nel quale succede di tutto.

Nel centro di accoglienza vive con la moglie e la figlia. Mi fa vedere sul telefono che dal SAI gli hanno inviato le istruzioni per rientrare: un bus per Cosenza che partirà dal piazzale dell’aeroporto e poi la coincidenza per il paese dove è situato il centro di accoglienza.

Gli spiego il motivo per il quale non l’hanno fatto partire: una carta d’identità divisa può presupporre la foto di una persone e le generalità (nell’altra pagina) di un’altra persona, che quel documento non è valido, che se avesse messo del nastro adesivo quando era ancora in parte attaccata il problema con tutta probabilità non si sarebbe presentato. Ora è più calmo, capisce perfettamente.

Gli chiedo quanti soldi ha, lui risponde che ha 9 euro. Impossibile lasciarlo in balia di possibili imprevisti nel viaggio verso il centro di accoglienza con così pochi soldi, gli do quindi 20 euro, leggo immediatamente il senso di sollievo sul suo viso. Ora per fortuna è calmo.

“Mi raccomando” gli dico “fai al più preso la carta d’identita nuova, così sei tranquillo e a posto”. “Prendo l’appuntamento” mi risponde.

Gli dico di salutare sua moglie e di dare un bacio da parte mia a sua figlia, lo abbraccio e mi avvio, è ora che io vada al gate di partenza.

Rientro in aeroporto e mi avvicino all’agente, lo ringrazio, il loro atteggiamento è stato davvero equilibrato e per quanto possibile hanno cercato di aiutarlo a calmarsi.

Appena passati i controlli mi avvicina un agente della sicurezza, mi chiede com’è andata, gli spiego, gli dico che V. si è sentito solo, sperso, probabilmente incapace di risolvere il problema in una situazione imprevista, con pochissimi soldi, occorsa in un Paese che non è il suo. L’agente capisce, leggo sul suo viso che è sinceramente dispiaciuto. Non solo: mi fa capire che ha apprezzato il mio gesto.

Mi chiedo cosa sarebbe potuto succedere se non fossi intervenuto, ma se anzi qualche altro passeggero avesse cominciato ad inveire contro di lui, non conosco la Calabria, è la prima volta che ci vado, so però che al nord sarebbe potuto succedere.

Rifletto sulla solidarietà: non è necessariamente svolgere chissà quale azione di volontariato, ma anche solo semplicemente adoperarsi, quando succede, per aiutare qualcuno in difficoltà, un essere umano, una persona. Mettere in atto azioni che uniscano e che non dividano. Accogliere è anche questo.