Il conflitto in Ucraina e l’imponente esodo umano che ha prodotto, si stima ad oggi quasi tre milioni di profughi, sta riportando all’attenzione generale la questione dell’accoglienza in Europa ed in Italia. Mentre rimane più oscurato il fronte dei soccorsi in mare, che ormai acquista rilievo soltanto per gli strascichi giudiziari di una stagione che sembra sempre più lontana, anche se i naufragi nel Mediterraneo centrale non sono mai cessati. Sono quasi 3 milioni (2.952.026) le persone che dal 24 febbraio, inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, al 14 marzo hanno lasciato il Paese. A comunicarlo è l’ONU, attraverso la pubblicazione dei dati sul sito dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR). I numeri indicano che oltre la metà delle persone fuggite dall’Ucraina sono arrivate in Polonia (1,8 milioni di rifugiati). Circa 420.000 profughi sono giunti invece in Romania e quasi 340.000 in Moldavia.

Si “sparano” cifre irreali sull’arrivo di masse di profughi ucraini, in Italia al momento circa 45.000 persone, mentre sono cessati gli allarmi “invasione” dal fronte sud, per il contenimento degli interventi SAR di ricerca e salvataggio delle poche navi delle ONG ancora operative, che soltanto lo scorso anno costituivano il principale tema di propaganda della Lega e del partito della Meloni. Tutto questo avviene in un clima di generale desertificazione della memoria, con una continua rimozione degli stretti nessi intercorrenti tra criminalizzazione dei soccorsi civili in mare e delle navi umanitarie (definite “taxi del mare”) e abbattimento del sistema di accoglienza, quel sistema che alcuni hanno legato ai salvataggi in mare con il termine dispregiativo di “pacchia”. Una visione dispregiativa delle azioni di solidarietà riscontrabile nelle iniziative giudiziarie che hanno sanzionato operatori e sindaci dell’accoglienza, come Mimmo Lucano, e che ancora oggi stanno cercando di mettere sotto accusa anche chi ha salvato decine di migliaia di persone abbandonate ad un sicuro naufragio per il ritiro dei mezzi e delle missioni di soccorso inviati dagli Stati, come si potrebbe verificare con il procedimento-Iuventa per cui il prossimo 21 maggio si arriverà finalmente all’Udienza preliminare davanti al Tribunale di Trapani. A cinque anni dal sequestro della nave, avvenuto nel porto di Lampedusa il 2 agosto del 2017, pochi giorni dopo l’adozione del cd. Codice di condotta Minniti, che prevedeva obblighi di collaborazione con le autorità libiche nei respingimenti collettivi verso la Libia. 

E’ giunto finalmente il tempo di rompere l’assedio della politica populista e nazionalista a quella parte della magistratura che ha riconosciuto la legittimità dell’operato delle ONG nell’adempimento dei doveri di soccorso delle persone a rischio di naufragare nel Mediterraneo. Occorre ripristinare il principio costituzionale della “riserva di legge” nella qualificazione dei reati e mettere fine alla prassi di adottare provvedimenti amministrativi per ricostruire “a posteriori” ipotesi di responsabilità penale a carico di chi soccorre e presta accoglienza. Il pieno rispetto del principio di uguaglianza di fronte alla legge e dei diritti di difesa, come il rispetto del sistema gerarchico delle fonti del diritto, costituiscono le basi della democrazia.

 

I sistemi di accoglienza a terra in Italia rimangono ancora affidati alla mera discrezionalità amministrativa, dunque ancora una volta alle scelte del Ministero dell’interno, e oltre al decreto legislativo n.142 del 2015, si ricorre ancora alla previsione “in bianco” della Legge Puglia (Decreto legge 30 ottobre 1995, n.451) ed alla previsione molto parziale sui cd. Hotspot dell’art.10 ter del Testo Unico sull’immigrazione n.286/98 come da ultimo modificato. In Italia manca ancora una legge organica in materia di accoglienza, ed i provvedimenti in materia vengono assunti con una delega tanto ampia al livello periferico, come le Prefetture, da tradursi in interventi scoordinati, ad alto costo, e scarsamente verificabili. Il sistema di accoglienza italiano, che nel 2016 era riuscito a garantire oltre 180.000 posti, oggi sembra offrirne appena un quarto, si stima non oltre 40-45.000 posti, e non si vede come, con quali risorse e con quali regole potrà essere ampliato. Intanto l’arrivo dei profughi ucraini viene scaricato, piuttosto che su un sistema pubblico, sui privati benefattori e sulle famiglie ucraine già residenti in Italia, mentre le altre forme di accoglienza sono monopolizzate, dal punto di vista dei costi e della funzione simbolica, dalle costosissime navi Hotspot, che hanno assunto anche la caratteristica di essere luoghi di contenimento in vista della preparazione delle misure di rimpatrio con accompagnamento forzato. Sarebbe questo invece il tempo per ritornare a modelli di accoglienza diffusa, non solo per chi fugge dalla guerra in Ucraina, ma anche per tutti gli altri profughi, che nessuno vuole chiamare tali, anche se fuggono da guerre altrettanto orribili di quella che si sta combattendo nel cuore dell’Europa, che nei prossimi mesi arriveranno in Italia dalle coste dell’Africa.

 

E’ possibile prevedere che malgrado l’ulteriore aumento dei profughi in fuga dall’Ucraina soltanto una minima parte di loro arriverà nel nostro paese e chiederà assistenza al sistema di accoglienza pubblico, ridotto come è ai minimi termini dai provvedimenti legislativi ed amministrativi adottati a partire dal 2017. L’Italia farebbe bene tuttavia a dotarsi di un vero sistema pubblico di accoglienza, valorizzando tutte le risorse locali ancora esistenti, come gli esempi di accoglienza diffusa, in vista di una stagione estiva in cui le tensioni tra Ucraina e Russia potrebbero avere gravi ripercussioni in Africa e soprattutto in Libia. Occorre puntare sui sistemi di accoglienza progettati e gestiti dagli enti locali, piuttosto che continuare a favorire in una logica puramente emergenziale i grandi centri di accoglienza appaltati dalle prefetture ai privati, senza alcun legame con il territorio e senza prospettive di reale integrazione delle persone che vi vengono (r)accolte.

Non si può continuare a dare spazio a quella politica che specula sulla guerra tra poveri ed utilizza informazioni false (come i 35 euro che sarebbero stati dati quotidianamente ai richiedenti asilo) per fare passare chi pratica accoglienza come beneficiario di una “pacchia”. Adesso quelle stesse forze, veri e propri impresari della paura, hanno scoperto l’accoglienza per i “veri” profughi, cioè per chi fugge dall’Ucraina, continuando a mantenere un atteggiamento di chiusura nei confronti di tutti gli altri profughi in fuga dai tanti sud del mondo. definiti comunemente come “clandestini”. La Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati e la normativa europea in materia di protezione internazionale, come le norme interne, vietano, sotto questo profilo, qualsiasi discriminazione. Anche chi fa ingresso irregolare ha diritto ad avere una procedura equa per l’esame della sua istanza di protezione, le necessarie informazioni, ed i diritti di difesa che sono previsti per i casi di diniego. Per i richiedenti asilo l’ingresso irregolare costituisce la regola e non l’eccezione. Ed in caso di soccorso in mare è ancora più inappropriato parlare di “clandestini” e di ingresso irregolare perché l’art. 10 del Testo Unico sull’immigrazione n.286/98 distingue tra ingresso con sottrazione ai controlli di frontiera ed ingresso per necessità di pubblico soccorso. La stessa norma prevede che le disposizioni in materia di respingimento a seguito di ingresso irregolare “non si applicano nei casi previsti dalle disposizioni vigenti che disciplinano l’asilo politico, il riconoscimento dello status di rifugiato, ovvero l’adozione di misure di protezione temporanea per motivi umanitari”.

 

Sarebbe tempo che le autorità italiane riconoscano finalmente il diritto di accedere al territorio nazionale per tutti coloro che intendono presentare una istanza di protezione, e dunque il primato del diritto internazionale, sospendendo ogni rapporto di collaborazione con autorità di paesi che non rispettano i diritti umani (tema oggi assai attuale, ma non con riferimento ai paesi fornitori di gas e petrolio come la Libia), a partire dalla cancellazione del Memorandum d’intesa tra Italia e Libia del 2 febbraio 2017. Non si può attendere ancora che altre persone siano condannate a naufragare in mare o ad essere riportate indietro dai libici, quando dovrebbero essere soccorse dalle autorità maltesi o italiane e quindi sbarcate nel porto sicuro più vicino. Come impone il diritto internazionale, che vieta respingimenti collettivi, anche su delega, verso paesi che non rispettano i diritti umani ( art. 33 della Convenzione di Ginevra ed art. 4 del Quarto Protocollo allegato alla CEDU) e prevede lo sbarco dei naufraghi nel porto sicuro più vicino. Al contrario di quanto è stato costantemente deciso dall’ex ministro dell’interno Salvini, per il quale prosegue, con risalto sempre minore, il processo Open Arms, davanti al Tribunale di Palermo.

Al di là della propaganda elettorale e della ipocrita commiserazione verso le vittime del conflitto ucraino, occorre ricordare che i profughi non possono essere discriminati a seconda dell’area di provenienza e che le regole del Diritto internazionale, anche per effetto dell’articolo 117 della Costituzione, come ricorda la Corte di cassazione, costituiscono parte integrante dell’ordinamento giuridico interno e stabiliscono precisi obblighi di soccorso e di assistenza in capo alle autorità politiche e militari degli Stati firmatari delle Convenzioni internazionali.