Ha avuto una certa rilevanza nei media di tutto il mondo, e ha poi fatto il giro del web, l’ultimo rapporto di Oxfam , significativamente titolato “La pandemia della diseguaglianza”, in cui si sottolinea come l’emergenza sanitaria ha notevolmente accentuato le diseguaglianze sociali nella distribuzione globale della ricchezza. Secondo quanto riportato dalla nota ong (con sede anche in Italia) pare che i dieci uomini più ricchi del mondo, negli ultimi due anni,  abbiano più che raddoppiato le loro ricchezze, passando da 700 a 1500 miliardi di dollari. Come riporta  AGI – Agenzia Italia-, dice Gabriella Bucher,  direttrice di Oxfam International: “i dieci super ricchi detengono una ricchezza sei volte superiore al patrimonio del 40% più povero della popolazione  mondiale, composto da 3,1 miliardi di persone. [Tanto che] Se anche vedessero ridotto del 99,993% il valore delle proprie fortune, resterebbero membri titolari del top 1% globale”.

Come si può vedere si tratta di dati impressionanti e che, tuttavia, sono perfettamente in linea con quel continuo turbinio di numeri, cifre e percentuali con i quali, ormai da tempo, si denuncia il crescere vertiginoso dell’opposizione tra ricchezza e povertà, col risultato che alla lunga (io temo) l’indignazione si possa trasformare in assuefazione e conseguentemente in rassegnazione.

Si è invece stranamente parlato poco del documento prodotto da 102 miliardari (dei 2600 esistenti al mondo) che si autodefiniscono “patrioti” e che chiedono a gran voce: ”Tassate noi ricchi, tassateci ora”. L’appello e poi accompagnato con la concreta richiesta di una tassa patrimoniale, anche dettagliata nelle cifre, con cui si dicono certi che si potrebbe assicurare assistenza e protezione sociale a 3,6 miliardi di persone nel mondo.

“Ricchi e buoni?” verrebbe da dire, riproponendo il titolo dell’ottimo saggio di Nicoletta Dentico sul filantrocapitalismo (EMI 2020). Ma ora non ci interessa stare ad indagare sulle buone (o cattive) intenzioni dei proponenti. Quello che, invece, ci pare estremamente interessante è che i due documenti che qui abbiamo citato (Il rapporto di Oxfam e la dichiarazione dei “ricchi patrioti”) sono stati pubblicati entrambi in occasione dell’ultimo meeting del World Economic Forum  di Davos. 

Ormai il WEF è divenuto un luogo di riferimento centrale nella definizione dei modi e degli strumenti della governance globale, che appare sempre più come il darsi di un complesso rapporto tra istituzioni pubbliche internazionali (dall’ONU alla Banca Mondiale; dal Fondo Monetario Internazionale all’Organizzazione mondiale del commercio) con le miliardarie e potentissime fondazioni private, in un quadro comunque caratterizzato dal dominio anarchico e incontrollabile della finanza globale, con la variabile non prevedibile e non governabile della potenza militare (e commerciale) delle grandi superpotenze.

Non c’è spazio per approfondire la questione. Una sola domanda vogliamo farci; Che fine ha fatto nel darsi del comando globale lo “spazio angusto” del vecchio Stato Nazione? 

Una volta nella buona tradizione marxista c’era il mercato – sostanzialmente nazionale – dove i singoli capitalisti privati erano fra loro costantemente in feroce competizione concorrenziale; e poi, dall’altra parte, c’era lo Stato che rappresentava il “capitalista collettivo”: il comando “intelligente”  che riproduceva il sistema, nel suo ambito territoriale innanzitutto, ma anche nel contesto internazionale. Per circa un secolo questo modello ha prodotto imperialismo e guerra sul piano planetario. Sul piano nazionale si è invece imposto alla fine come vincente, anche se non senza scontri e dopo lunghe e spesso dolorose vicende, lo Stato Democratico, fondato sul compromesso keynesiano, nel quale la classe operaia fordista e post-fordista, pur nella propria subalternità e nel riprodursi dello sfruttamento, aveva il suo ruolo e la sua dignità, con i suoi spazi di contrattazione e mediazione, e col suo ruolo riconosciuto di traino verso una più generale capacità di promozione sociale del complesso degli strati subalterni. 

Oggi la globalizzazione ha cancellato di fatto gli spazi e le logiche che caratterizzavano “lo Stato Democratico”.  La democrazia è divenuta un concetto vuoto; le sue pratiche ormai sono solo puri procedimenti formali,  senza contenuti sostanziali. Lo Stato nazione e la sua gestione da parte del ceto politico, non rispondono più alle sollecitazioni sociali di tipo emancipativo che provengono dal proprio interno. Il riferimento della decisione politica è ormai il contesto internazionale, caratterizzato spesso dal “ricatto del debito” e dai diktat della finanza globale.

L’Italia è a questo proposito una sorta di esempio da manuale. Il capo del governo (Draghi) non è espressione delle contraddizioni del paese e del loro rappresentarsi in politica, ma piuttosto l’uomo gradito alla finanza internazionale, con i cui rappresentanti si può permettere di interloquire sperando in un minimo di capacità di mediazione. Ogni decisione politica, a tutti i livelli, non risponde più alla domanda “cosa ci chiede la gente?”, quanto piuttosto ad altre preoccupazioni: “come reagiranno i mercati?”; “Cosa succederà al nostro debito pubblico?”. In queste condizioni, mentre “il capitalismo della sorveglianza” controlla a distanza, e spesso in modo soft, le nostre vite, impacchettando le nostre scelte nei big data dei suoi algoritmi, lo Stato nazione finisce col ridursi spesso ad una specie di front office, deputato alla chiacchiera ingannatrice del politicante di mestiere e, quando questa non funziona, alla pura repressione poliziesca della piazza o a quella più raffinata della magistratura. Zero mediazione zero democrazia, dunque condanna al silenzio di chi è fuori dal gioco, al punto che la richiesta di una semplice “patrimoniale”, che qualcuno “dall’alto” propone come mezzo per salvare lo stesso capitalismo dalle sue storture autodistruttive, finisce coll’essere considerata – a casa nostra – la follia di alcuni vecchi estremisti che si ostinano a non volere capire come stanno le cose.