Il prestigioso settimanale “The Economist” ha recentemente incoronato l’Italia paese dell’anno. Ennesimo riconoscimento, secondo i più, all’opera meritoria di superMario, l’indefesso banchiere per tutte le stagioni. Qualche malalingua ha subito ricordato che il maggiore azionista del periodico inglese è la famiglia Agnelli. Altri hanno subito replicato che sulla indipendenza della famosa testata fanno fede 177 anni di storia. Noi, in mancanza di ulteriori elementi, registriamo la querelle senza prendere partito.

Alla base dell’apprezzamento nei confronti del nostro paese sta la constatazione della ripresa economica nel corso del 2021, testimoniata da un rialzo del PIL pari al 6,2%, che dovrebbe essere il più alto d’Europa, e che comunque ci dice di una crescita che da noi non si vedeva da alcuni decenni. I numeri da soli però significano poco e, per capirne il significato, bisogna saperli leggere. Ci sono, a proposito, alcune precisazioni da fare, di non poco conto.

La prima ed essenziale osservazione è che la crescita convenzionalmente si misura in percentuale sul Prodotto Interno Lordo dell’anno precedente. Nel nostro caso quel 2020 in cui la nostra economia aveva perso ben nove punti. Una caduta del 9%, che guarda caso era il peggior dato registrato nell’intera Europa. Una ripresa, quella attuale, che in termini tecnici non si può neppure definire come “crescita”, e che al contrario viene generalmente indicata come semplice “effetto rimbalzo”. Insomma ci troviamo semplicemente di fronte ad un parziale recupero di quanto perso a causa della emergenza pandemica, e che comunque pone il dato odierno ancora sotto di più del 3% rispetto al PIL del 2019, ultimo anno prima che tutto cominciasse. Il tutto, per altro, in una situazione che, a causa della variante omicron, non promette nulla di buono per il futuro, tanto che già analisti e banche centrali prevedono, anche per il nostro paese, e in modo molto prudente, un rallentamento almeno per il primo trimestre del 2022.

Va poi aggiunto che, nell’attuale ripresa, un ruolo centrale ha assunto il settore edilizio, che dagli ultimi dati pare chiuda l’anno in corso con un balzo del 17%, evidente effetto dei molteplici incentivi, a partire dal bonus del 110%, messi in campo dal governo. E’ chiaro che si tratta di un dato positivo, ed è un bene che le agevolazioni, a quanto pare, vengano estese anche al prossimo anno. Tuttavia anche chi capisce poco di economia, si può facilmente rendere conto di come si tratti di una crescita legata a fattori del tutto contingenti, che sono destinati a esaurirsi presto, senza lasciare traccia sui fattori strutturali e di lungo periodo che determinano i modi della produzione della ricchezza nel nostro paese come altrove.

A proposito di dati strutturali e di più ampio periodo (gli unici che veramente contano per una reale valutazione dello stato dell’economia di un paese) limitiamoci a ricordare che l’Italia è l’unico paese dell’Europa e dell’intero occidente a non essere ancora tornato ai livelli del PIL che si facevano registrare prima della crisi dei subprime. Se consideriamo infatti il PIL reale (calcolato cioè al netto dell’inflazione) dobbiamo constatare che il Prodotto Interno Lordo del 2019, l’ultimo anno non influenzato dai mali dell’emergenza sanitaria, è ancora inferiore del 3,5% a quello fatto registrare nel 2007, prima che la crisi dagli USA si diffondesse a tutto l’occidente. Oggi, anche prendendo per buone le previsioni di Governo e Banca centrale, a quei livelli dovremmo tornare solo nel 2024. Cosa che personalmente ritengo comunque molto improbabile perché le previsioni ufficiali, oltre a non tenere conto dei futuri effetti della pandemia (in verità difficilmente quantificabili), si basano sui presunti e mirabolanti effetti del miracoloso PNRR, a mio avviso ampiamente sopravvalutati.

Non possiamo entrare in questa sede su altri e più complessi discorsi che riguardano gli assetti della nostra economia. Limitiamoci a sottolineare come il nostro impianto produttivo è fondato sulle PMI (piccole e medie industrie), purtroppo a basso contenuto tecnologico. Su questo punto bisognerebbe intervenire, anche attraverso un considerevole impegno pubblico, nell’implementazione di tecnologie d’avanguardia attraverso la creazione e il rafforzamento, in senso fortemente cooperativo e “dal basso”, dei distretti produttivi territoriali e di settore. Purtroppo invece la via (del tutto fallimentare) scelta per la pura sopravvivenza della nostra economia è stata quella della continua compressione dei salari, in maniera crescente a partire soprattutto dagli anni novanta, e non a caso in concomitanza con la nascita dell’Europa di Maastricht e il definitivo imporsi delle logiche di governance  neoliberiste nel nostro paese, con la distruzione delle grandi imprese pubbliche, e con i risultati (anche , ma non solo, in termini di PIL) che sono sotto gli occhi di tutti. Consegniamo, a questo riguardo e per future riflessioni, un solo dato: Il salario medio nel nostro paese, dai primi anni novanta ad oggi è calato in termini reali (al netto dell’inflazione) del 3%. Nello stesso periodo le retribuzioni medie in Francia sono cresciute ben oltre il 30%, ed in Germania addirittura del 50%. Mi sembrano dati impressionanti, non solo per i lavoratori dipendenti ma per l’intera comunità. Altro che crescita del PIL!