Conosco Achille Stocchi da quando eravamo all’università. Ogni tanto ci sentivamo, ma ora scopro che da anni collabora con la Palestina e gli chiedo di poterlo intervistare. E’ subito disponibile e, pur a distanza, ci incontriamo.

Caro Achille ti chiedo di presentarti

Ho studiato fisica a Milano, ma da 30 anni vivo e lavoro in Francia: insegno e faccio ricerca all’Università di Paris-Sacaly e lavoro in un laboratorio (CNRS/università) di fisica delle particelle che si chiama IJCLab (Irène Joliot-Curie Laboratory) ad Orsay vicino a Parigi. Ho studiatoin Italia, mi sono trasferito in Francia ed ho lavorato un po’ in giro per il mondo in esperimenti di fisica delle particelle.

Come nasce questo incontro con la Palestina?

Nella mia carriera ho avuto tanti studenti stranieri, circa 7-8 anni fà ho accolto nel mio laboratorio uno studente palestinese, veniva a fare il master, insieme a sua moglie. Entrambi fisici, fecero il master 1 e 2. In seguito lui, che si chiama Ahmed Bassalat, ha fatto una tesi nel mio laboratorio e sua moglie (Hadil Abualrob) in uno vicino. Dopo 3 anni sono tornati in Palestina, a Nablus, e hanno cominciato a lavorare all’università An-Najah come professori assistenti. Abbiamo mantenuto i contatti e da allora abbiamo stretto relazioni tra le due università. Abbiamo creato insieme una scuola, “scuola d’inverno” perché la facciamo a novembre quando io e anche altri professori di Orsay andiamo là. Sensibilizziamo gli studenti di master palestinesi (o anche più giovani) alla fisica nucleare, delle particelle, cosmologia, in generale alla fisica delle alte energie. Abbiamo avuto tantissimi studenti e, cosa che inizialmente mi ha molto sorpreso, quasi tutte ragazze. Molte sono anche già madri, di solito non arrivano al dottorato, ma tornano in Palestina e vanno ad insegnare nei licei.

I legami si sono col tempo rafforzati e abbiamo diversi studenti e studentesse che vengono qui in Francia con borse di studio. Inizialmente siamo riusciti a farlo con poche risorse del nostro laboratorio, ma ultimamente sono arrivati dei buoni finanziamenti dall’Unione Europea (programma Erasums+). Almeno una volta all’anno andiamo là ad insegnare, parallelamente vengono degli studenti qua o per degli stage o per il master vero e proprio. Ora abbiamo 7 studenti che hanno finito o stanno finendo il dottorato, ma hanno tutti ferma l’idea di tornare in Palestina.

Quali sono state le difficoltà principali?

Per noi andare là è relativamente facile, a parte qualche interrogatorio un po’ più lungo e i cambi dei taxi, si arriva a Nablus, dove siamo accolti davvero con grande calore. Poi ci immergiamo nel lavoro e vediamo poco altro.

Loro hanno molte difficoltà, non possono assolutamente entrare in Israele e quindi prendere un aereo a Tel Aviv: devono passare per la Giordania, verso Jerico, ma anche la “loro” frontiera è controllata dagli israeliani. Da lì vanno ad Amman e prendono l’aereo. Se a noi bastano alcune ore, a loro ci vogliono un paio di giorni, ma arrivano. Con Gaza invece è impossibile e non siamo riusciti a far venire gli studenti.

Immagino che per loro sia una gran boccata d’ossigeno, sia quando andate che quando vengono.

Si, decisamente. C’è da dire che come spesso avviene in Medio Oriente, ci tengono molto alla formazione, sono molto esigenti e quindi gli studenti sono davvero bravi. La loro università è molto dinamica e sta crescendo moltissimo. Certo la quasi totalità dei giovani non sono mai usciti da “casa loro”, sono in una sorta di prigione, quindi vedere volti nuovi o venire in Europa è molto importante.

E’ probabilmente un doppio riscatto, infatti come dicevo la maggior parte sono ragazze. Ricordo la prima volta che entrai in classe: notai che c’erano solo 2 maschi e quasi 30 ragazze. Forse è una caratteristica di materie come fisica, matematica, scienze, comunque attualmente l’80% delle nostre classi è composto da studentesse.

La scuola che fate lì è assimilabile a una delle altre che fate per il mondo o acquista un significato diverso?

Effettivamente è differente, anche solo come eco nella stampa. Il paese è piccolo, l’evento importante, ci sono cerimonie, vengono ministri a salutarti, sei sempre fuori a cena, a volte è quasi imbarazzante. Comunque abbiamo sempre fatto di tutto perché non diventasse pura forma, o che la selezione non fosse vera, anzi. La selezione, soprattutto quando vengono da noi, è forte, li “butti” in mezzo ad italiani, francesi, studenti di tutto il mondo, ma loro riescono tra i primi. In qualche modo non hai diritto all’errore, senti un forte responsabilità nei loro confronti.

Come è stato il coinvolgimento dei tuoi colleghi?

Inizialmente sono venuti con me “i più coraggiosi”, qualcuno aveva paura, ma nessuno aveva resistenze di altro tipo. Adesso dopo qualche anno che andiamo il cerchio si è allargato. Certo quando andiamo là si tratta di studio, teoria quasi pura. Quando vengono da noi cerchiamo di far conoscere loro importanti laboratori (CERN…), di fare esperienze con gli strumenti più sofisticati e partecipano a ricerche direttamente, pubblicano con noi.

Siete riusciti a far arrivare lì della strumentazione?

Si ma non è stato facile, il blocco di Israele è potente, tanto che io dubitavo di farcela, invece sono arrivate delle apparecchiature dal CERN per un centro di calcolo. Sono poi andati dei nostri ingegneri ad installarli e ora funzionano. Ora vorremmo mandare giù del materiale di laboratorio per poter partecipare a grossi esperimenti del CERN. Vedremo, è sempre tutto molto complicato.

Quali cambiamenti hai rilevato nel corso di questi anni?

Ho la sensazione che la Cisgiordania sia un po’ “anestetizzata”. Questi accordi tra governo di Fatah e governo israeliano, sembrano dire: “se fate i bravi vi lasciamo vivere tranquilli…” Sono andato 7-8 volte e non ho mai visto nessun incidente, ma la situazione non migliora di certo, anzi. La loro “resilienza” è davvero grande. L’occupazione israeliana cresce e ogni volta lungo il tragitto vedi un nuovo insediamento di colonie. Loro, comunque, dall’Università ci prendono in carico completamente e non ci lasciano mai soli. Gli amici palestinesi scherzano e dicono: “è’ un groviera in cui ci hanno lasciato i buchi”. Viene da chiedersi “come fanno a reggere questo continuo, continuo, controllo, su tutto?”…

Loro comunque, incredibilmente, rimangono ottimisti. E gli studenti non aspirano a rimanere in occidente, vogliono tornare là. Tutti lì sono molto accoglienti, dai vertici in giù e anche gli studenti sono ben diversi “dai nostri” ai quali sembra un po’ tutto dovuto, hanno un’enorme riconoscenza nei nostri confronti. Dopo più di un anno e mezzo di covid, riunioni e “corsi” a distanza, la Palestina mi manca tremendamente. Ci torniamo in novembre!

 

Foto di Achille Stocchi