Dalla recensione di Bruno Lai al libro Il ginocchio sul collo. L’America, il razzismo, la violenza tra presente, storia e immagini di  di Alessandro Portelli (Donzelli, Roma 2020)

«le polizie italiane non sono per nulla lontane dal praticare controlli e azioni repressive con estrema brutalità sino alla tortura e talvolta all’assassinio (si ricordino i casi Aldrovandi, Cucchi e decine di altri per non parlare dei morti nelle carceri … lo “spirito neocoloniale” diffuso in Italia e in Europa è lo stesso che prevale negli States» (cfr. Salvatore Palidda, Polizie, sicurezza e insicurezze, Meltemi, 2021)

 

Le violenze della polizia contro cittadini inermi sono frequenti, ed assai probabili per i cittadini neri, come per i nativi ed i latini. Portelli racconta tantissimi episodi con nomi, cognomi e bibliografia di riferimento. A Portland, nel luglio 2020, l’amministrazione Trump aveva inviato i federali. Un gruppo di donne decise di proteggere i propri figli che manifestavano pacificamente, formando un “Wall of Moms”, un “muro di mamme”. Ma nemmeno loro sono state risparmiate dalla violenza degli agenti. Le mamme erano più di trecento ed il loro slogan era: «feds stay clear, moms are here», «federali alla larga, le mamme sono qui». «Più tardi, durante la notte, gli agenti federali le hanno gassate con lacrimogeni e granate stordenti: “Pare che una delle mamme sia incinta, e gli agenti federali stanno mettendo in pericolo queste manifestanti pacifiche”».

Sempre del 2020 sono due storie parallele, che evidenziano il razzismo che guida i frequenti abusi della polizia. Entrambe le vicende avvengono a Lafayette, in Louisiana, ad agosto, quindi successivamente all’omicidio di George Floyd. Il primo caso riguarda Donald Guitry, quarantaduenne armato di coltello, che fugge su un’auto rubata. Raggiunto dagli agenti, viene convinto ad arrendersi senza opporre resistenza e viene arrestato senza venir sparato e senza ginocchio sul collo. La seconda storia è quella di Trayford Pellerin; anch’egli armato di coltello. All’intervento dei poliziotti, si allontana a piedi. Lo seguono, provano a fermarlo con il taser, che però non funziona, ed alla fine gli sparano alle spalle senza che avesse accennato una reazione o si fosse mai mostrato pericoloso. La differenza tra queste due storie: «Donald Guitry è bianco, ed è vivo; Trayford Pellerin era nero, ed è morto».

Quella in atto contro i cittadini poveri e discriminati è una sorta di guerra ed il linguaggio usato dai media ne risente fortemente. Soprattutto nel frequente ricorso ad eufemismi e manipolazioni per nascondere gli abusi. Quando fu sparato Trayford Pellerin, che non aveva armi da fuoco, una tv locale riferì che l’uomo «era coinvolto in una sparatoria in cui sono coinvolti agenti di polizia». «Un atto di violenza unilaterale viene raccontato come un conflitto reciproco».

Quando un razzista diciassettenne bianco uccide due manifestanti con un fucile semiautomatico e ne ferisce gravemente un altro, la reazione della polizia è diversa: «Il sospetto sparatore è stato poi arrestato senza bisogno di sparargli: è un bianco con un fucile mitragliatore, non un nero sospettato di avere un coltello. Per non dire che è bianco, i media locali dicono che è “from the suburbs”; per non dire che vigilanti bianchi girano armati in città, la tv dice che “gira per le strade anche un movimento di protesta ispirato al secondo emendamento”». Per nascondere violenze e responsabilità, i media usano verbi al passivo e soggetti impersonali: «(“afroamericano colpito”, “poliziotto coinvolto”, non poliziotto uccide; “sparatoria tra civili”, senza soggetto). La polizia e i vigilanti razzisti bianchi ammazzano (è successo a Detroit […] a Charlottesville […]), ma la parola “violenza” appare solo in riferimento alle proteste».

Portelli sottolinea come questo travisamento sistematico dei fatti sia profondamente presente nella nostra tradizione culturale. Nel romanzo Moby Dick, per esempio, non è certo il capitano Achab ad essere descritto come essere demoniaco, ma la sua vittima, la balena che egli cerca di uccidere.

L’Autore indica i fattori che alimentano i crimini razziali commessi da agenti di polizia: il disprezzo diffuso nei confronti delle minoranze (neri, latini, nativi, poveri in generale); impunità e spirito di corpo: «quasi nessun poliziotto ha perso il posto e tanto meno è andato in carcere per aver ucciso un nero»; l’incompetenza, cioè non saper controllare i sospetti se non sparando; la paura: «il racial profiling insegna a vedere in ogni giovane nero un potenziale criminale, e in un paese dove tutti sono armati ci si aspetta che anche i sospettati lo siano, e al primo gesto si risponde, come nel mitico West, sparando per primi – anche ai disarmati».

A questi fattori si possono aggiungere i pregiudizi razziali che, secondo diverse ricerche, tra i poliziotti sono più diffusi che nel resto della popolazione. «Per esempio, in un esperimento condotto dopo l’uccisione di Diallo la maggioranza dei soggetti scambiava oggetti innocui per armi con più frequenza se l’immagine era accompagnata da una faccia nera anziché da una faccia bianca; e questa tendenza era ancora più marcata fra gli agenti di polizia che avevano partecipato all’esperimento. Come disse uno dei ricercatori, “i poliziotti sono addestrati ad essere molto sensibili alle armi, ma non a disfare gli stereotipi razziali inconsci”. D’altra parte, le infiltrazioni di organizzazioni suprematiste bianche e di estrema destra nei vari corpi di polizia sono un dato incontrovertibile». E non soltanto negli USA, purtroppo. Amadou Diallo, sopra citato, era uno studente guineano, residente a New York, ucciso in circostanze controverse nel 1999, con 41 colpi di arma da fuoco, da quattro agenti della unità Crimini Stradali della polizia di New York. Diallo era disarmato.

Se hai la pelle nera (American Skin la chiama Bruce Springstein in una sua canzone dedicata proprio all’omicidio di Amadou Diallo), qualunque cosa tu stia facendo, corri il rischio di essere arrestato – se ti va bene – o sparato. Se sei nero e guidi l’auto, sei automaticamente sospettato di averla rubata. Esiste anche un’espressione ironica per indicare questa condizione: “Driving While Black” “guida in stato di nerità”, che ricorda l’espressione “guida in stato di ebbrezza”. «Essere nero, giovane e maschio è in sé segno di essere sospetto o direttamente criminale: la presunzione di innocenza si rovescia, sei colpevole fino a prova contraria. Puoi essere anche un professore di Harvard di fama internazionale, come Henry Louis Gates, ma se sei nero e stai armeggiando di fronte alla porta di casa tua, rischi lo stesso di essere arrestato e portato in commissariato».

Sono più importanti le statue o le persone?

Tra gli aspetti delle proteste contro la violenza della polizia, seguite all’omicidio di George Floyd, ha fatto molto discutere qualche episodio di distruzione o danneggiamento di statue. Si è trattato di monumenti eretti in memoria di personaggi storici che erano coinvolti in crimini razziali del passato: per esempio Edward Colson (mercante di persone ridotte in schiavitù), Cristoforo Colombo, Winston Churchill, Indro Montanelli (la statua del giornalista, stupratore mai pentito di una bimba dodicenne, non è stata abbattuta, ma soltanto sporcata di vernice rossa), e pochi altri.

Portelli si indigna per l’ipocrisia di chi si preoccupa più delle statue che delle persone: «Lo scandalo dei benpensanti sulla cosiddetta “furia iconoclasta” nei confronti dei monumenti degli eroi del razzismo e della schiavitù nel Sud (le onnipresenti statue di Robert E. Lee, Stonewall Jackson, Edwin Bedford Forrest…) è, fra le altre cose, anche un modo per parlare del vandalismo sui marmi e glissare sul vandalismo sui corpi. È davvero sfortunata la metafora di “Repubblica” che denuncia allarmata: “Proteste negli USA: dopo le statue, nel mirino finisce anche il Monte Rushmore”, dimenticandosi che nel mirino ci finisce ben altro: tra giugno e agosto, dopol’assassinio di George Floyd, la polizia ha distrutto negli Stati Uniti altri 155 esseri umani non fatti di marmo».

Del resto, abbattere statue che rappresentano un passato che si vuole superare (superare, non dimenticare!) è una pratica comune in democrazia. Nella democrazia americana è qualcosa che si è verificato fin dalle origini. Pochi giorni dopo la Dichiarazione di indipendenza del 4 luglio 1776, a Philadelphia venne abbattuta e distrutta «la solenne statua equestre in piombo dorato di Giorgio III, re d’Inghilterra». Il responsabile delle poste di New York, Ebenezer Hazard, dichiarò in quell’occasione: «la statua è stata tirata giù per farne palle da moschetto, così che le truppe reali si vedranno sparare addosso con la fusione di Sua Maestà».

La questione, spiega Portelli citando Roland Barthes, è che i monumenti non sono semplicemente «“tracce” della storia ma segni intenzionali con cui il potere presente afferma il proprio diritto di definire il significato del tempo storico e dello spazio pubblico. Non serve a ricordare che certe persone sono esistite ma a celebrarle e proporle come modelli normativi, ideali a cui ispirarsi».

Oltre ai neri, sono vittime prevalenti della violenza della polizia anche i nativi americani, i discendenti di coloro che abitavano già il Nord America al momento della tanto celebrata «scoperta dell’America» e dell’altrettanto glorificata «conquista del West». La narrazione dell’invasione del West è corrotta da una doppia mistificazione. Da un lato si nasconde il fatto che la colonizzazione dell’Ovest è stata «opera di “cowboy di ogni tipo: bianchi, neri, messicani e indiani”, che il modello dei cowboy americani furono i vaqueros messicani e che almeno un quarto dei cowboy erano neri, spesso ex schiavi». La narrazione “ufficiale”, consegnata a tantissimi film western, ne ha fatto un’epopea di soli uomini bianchi. Dall’altro lato, c’è il solito rovesciamento di responsabilità: i nativi, invasi e sterminati, sono sempre stati dipinti come selvaggi e sanguinari, mentre erano le vittime della violenza degli invasori. La conquista del West «ha comportato lo sterminio, l’oppressione, la sistematica violazione di impegni e trattati, e la discriminazione razziale» ai danni dei nativi, i “pellerossa”. Ed i loro discendenti sono discriminati e oggetto di abusi e violenza ancora oggi. «Se è necessario ribadire che le vite dei neri contano, è dunque altrettanto necessario ricordare che le vite dei nativi americani hanno sempre contato, e continuano a contare, anche di meno: a partire dal fatto che la percentuale di nativi uccisi dalla polizia è del 12% più alta degli afroamericani, e il triplo dei bianchi».

 

Bruno Lai

 

 lettura integrale su “LaBottegaDelBarbieri”