Se c’è oggi qualcosa che tutti (o quasi tutti) danno per scontato sono le grandi virtù che sarebbero insite nel concetto, e nella pratica sociale, legate alla cosiddetta meritocrazia. In effetti, e in apparenza, cosa può esservi di più scontato che riconoscere e premiare i più meritevoli? L’idea sa di “futuro” e di cosa giusta per la quale battersi. Magari opponendola alle pastoie ingessate della vecchia logica burocratica, dentro la quale si annidano impiegati “fannulloni” e senza controlli gerarchici, stupidità sistemica e, peggio ancora, favoritismi e clientele di ogni tipo. Oppure facendone un arma contro coloro che si contentano di sopravvivere di sussidi e vari “redditi di cittadinanza”. Tutto chiaro dunque! O no?

Per la verità qualche dubbio potrebbe venire già a partire dalla considerazione che troppe differenze naturali, storiche, sociali, personali, o anche solo accidentali, determinano diseguaglianze tali da inficiare “il diritto al merito” con enormi diseguaglianze di partenze. La versione “democratica” e originaria della meritocrazia si è inventata, a questo proposito, l’obiettivo delle “pari opportunità”. Una vera e propria ideologia , nel senso marxiano di ”falsa coscienza”, anzi (e meglio) un vero e proprio inganno, visto che mai nessuno potrà cancellare le differenze tra chi nasce ricco e chi povero, o solo tra chi nasce a New York e chi in Africa. Tra chi insomma riceve sin da bambino la migliore educazione e chi deve rischiare la vita per attraversare mari e confini per coronare il sogno di “essere sfruttato” nel ricco occidente.

Ma ogni scrupolo buonista è infine caduto con l’affermarsi dell’attuale “estremismo meritocratico”. La logica neoliberista del mercato senza vincoli e senza regole, ha prodotto un nuovo tipo antropologico: L’Homo oeconomicus, imprenditore di se stesso e gestore del proprio capitale umano. In questa logica non conta la dimensione dell’impresa, nel nostro caso l’impresa-uomo, e quindi neppure l’entità del capitale umano a disposizione. Ognuno deve fare i conti con quello che è, e con quello che ha, massimizzando tutte le opportunità a disposizione, in una costante lotta per la sopravvivenza, e se ne è capace, per il dominio sull’altro, entro una società trasformata in un perpetuo campo di battaglia, dove i caduti sono solo dei perdenti. In questo modello sociale neo-capitalista ogni diseguaglianza è giustificata e ogni sospetto di ingiustizia è cancellato. Ognuno ha quello che si merita, compreso le differenze di partenza o di ogni altro tipo, mentre la società nel suo complesso cresce e si sviluppa (almeno così si vuol far credere) attraverso la competizione generalizzata, trovando in questa il suo equilibrio e il modo della sua riproduzione.

Un equilibrio fondato sulla diseguaglianza che in realtà è di per sé un’idea molto antica. Viene alla mente, a proposito, qualcosa di simile all’apologo di Menenio Agrippa, in cui, come sappiamo, la società viene paragonata al corpo umano e alla interconnessione delle sue parti. Abbiamo così uomini-mente adibiti al comando, uomini-braccia che devono lavorare e, nelle moderne società capitaliste, anche uomini-viscere senza alcun valore riconosciuto. Ma in realtà il “corpo sociale” della modernità è molto di più rispetto alla staticità di quel modello antico. Oggi, almeno ipoteticamente, è consentito viaggiare lungo le membra e cambiare status. Tutti possono aspirare alla ricchezza e al comando. Naturalmente nei fatti pochissimi possono competere e ancora meno sono quelli capaci di fare il salto. Ma intanto imperversa il bellum omnium contra omnes, la guerra di tutti contro tutti di hobbesiana memoria, che tuttavia non sta più a designare, come nel filosofo inglese, il caos ingovernabile dello stato di natura, ma un ordine nuovo che sul conflitto si fonda, appropriandosi e mettendo a frutto, per la riproduzione di se stesso, delle stesse energie dei combattenti, cioè di tutti noi, gli schiavi. Come dire la guerra di Hobbes, ma coniugata con una visione estrema e “falsificata” della “mano invisibile” di Smith, che in realtà assume i tratti “visibilissimi” del dominio e del controllo sociale, che ogni cosa rimettono al loro posto.

A ben vedere sembrerebbe che l’affermarsi del capitalismo, in questi ultimi decenni, più che basarsi sui numeri dell’economia o sulla crescita consumistica, abbia trovato il suo vero punto di forza nella capacità di entrare nella testa della gente, almeno nelle cittadelle dell’occidente, (anche approfittando, ovviamente, della evidente crisi di prospettive della sinistra antagonista: socialista, comunista, anarchica, libertaria). È  oggi cosa normale che il valore di un individuo, ma anche di una famiglia o di una comunità, si misuri dal successo conseguito, che trova a sua volta la sua misura universale e “di potere” nella quantità di denaro posseduta.

Certo il ragionamento sugli attuali assetti sociali e sulle forme del controllo e della governamentalità presuppongono altre e più approfondite analisi, che esulano dalle ragioni di questo scritto. Quello che qui ci interessa sottolineare è che nessun passo, politico o teorico che sia, potrà essere fatto se non si parte dalla radice delle questioni, rimettendo in discussione valori e disvalori che guidano il nostro essere e il nostro vivere. Insomma bisogna ripartire dalla primalità dell’etica. Una etica ovviamente non considerata nella sua dimensione puramente astratta o teoretica, ma come elemento qualificante e di indirizzo delle scelte politiche e di campo.

Bisogna contrapporre ad una visione meritocratica, fondata sull’individualismo possessivo e sullo scontro competitivo, una diversa visione delle cose, nella quale il “merito”, se così vogliamo continuare a chiamarlo, si misura su altri parametri e con altre finalità. Bisogna affermare l’idea che la società si fonda innanzitutto su forme di cooperazione e di reciprocità in cui il valore e il contributo del singolo acquistano senso solo entro una rete complessa e plurale, senza la quale nulla si da. Inoltre, e senza entrare nello specifico di un discorso di tipo teoretico molto complesso, vogliamo semplicemente ricordare che il soggetto delle suddette relazioni, e cioè il cosiddetto “essere sociale” (dal quale notoriamente per Marx dipende “la coscienza” di ciascuno), è il prodotto del nostro “essere nel mondo”, e cioè del nostro essere immersi in un “universo di senso” che ci è già dato, e che corrisponde ad un preciso momento della storia. In soldoni: Il senso del mondo e delle cose in origine non dipende da noi, ma è il prodotto di una vicenda plurimillenaria che ci viene data come in dono dalle generazioni passate, e che noi abbiamo il dovere di preservare nei suoi aspetti positivi e, se ne siamo capaci, di correggere nelle sue criticità e arricchire (se possibile) verso un diverso e migliore futuro. In un certo senso è come una sorta di “debito originario” che noi contriamo col solo fatto di venire al mondo e che possiamo ripagare grazie a quello che siamo in grado di lasciare alle generazioni future.

La logica competitiva ed egoistica tipica  della (non) etica del capitalismo è, a mio avviso e in qualche modo, un tradimento nei confronti dei doveri che abbiamo rispetto ai nostri padri e soprattutto rispetto ai nostri figli. Ovviamente tutto questo ha senso solo se siamo in grado di affermare una nuova (ma in realtà antica) etica che sia in grado di condizionare la nostra vita fino ai comportamenti quotidiani. Per una nuova postura politica e rivoluzionaria è essenziale acquisire una nuova postura esistenziale, che cooperativa e non egoisticamente meritocratica.