Guerra Justa: così, a partire dai primi anni del 1600 venne denominata la guerra di conquista contro le popolazioni indigene, guerra giusta. La colonizzazione portoghese cominciata un secolo prima lungo la fascia litoranea, cominciava a spingersi verso l’interno sterminato del paese, ancora inesplorato. Alla ricerca di nuovi territori fertili e soprattutto di braccia per coltivarli, i coloni e, con essi, i missionari gesuiti, si trovarono a dover combattere contro la resistenza indigena che riluttava a lavorare come schiava nelle piantagioni di canna da zucchero, la monocultura responsabile dell’inizio dei cicli economici basati sullo sfruttamento delle risorse naturali, le materie prime: legname, canna da zucchero, gomma, oro, ferro, caffè, cacao, soja.

Gli indios resistevano. Resistevano culturalmente, rifiutandosi di piegarsi alla nuova religione, resistevano fisicamente opponendosi attraverso il sabotaggio e la resistenza passiva al regime di servitù al quale furono costretti. Per resistenza passiva si intende il lasciarsi morire di tristezza, o il suicidarsi con il loro metodo tradizionale: ingoiando manciate di terra e sabbia fino a soccombere. Resistevano militarmente, attraverso una vera guerra di guerriglia fatta da imboscate e scorribande. Nonostante le bolle papali definissero gli indios come esseri umani e in quanto tali, meritevoli di far parte a pieno diritto del popolo di Dio; nonostante la legge imperiale ne proibisse la riduzione in schiavitù, in pratica la situazione era alquanto differente.

Il costo altissimo di importazione della manodopera africana attraverso l’incipiente rotta di traffico negriero, rendeva molto più pratico convincere con le buone le popolazioni autoctone affinché lavorassero nelle grandi fazendas: le si toglieva dalla vita nomade, dalle usanze barbare, le si offriva la conversione del corpo attraverso la disciplina dei sensi e la salvezza dell’anima per mezzo della vera religione. Niente da fare. Continuavano a rifiutarsi, e con la loro resistenza si trasformarono in un costante pericolo per le fazendas e la produzione agricola. E così la guerra, oltre che necessaria diventò Justa, giusta: solo in questo caso, ammissibile. Dicono che cominciò con l’esecuzione di due capi ribelli sulla piazza di São Salvador de Bahia de Todos os Santos. Legati alla bocca di un cannone, gli si propose di baciare il crocifisso, rifiutarono.  

Brasilia, giugno 2021. Davanti al parlamento, le truppe speciali dimostrano ancora una volta tutta la loro preparazione militare anti sommossa. I palazzi del potere sono inviolabili e vanno protetti. Senza nessun preavviso comincia l’attacco. Lacrimogeni e bombe di gas urticante, manganelli, scudi, armature, fucili e pistole puntate. I feriti vengono portati in salvo a braccia tra le urla delle donne e le grida di vendetta degli uomini. Hanno il volto e il corpo dipinto, alzano simbolicamente i loro archi, le loro frecce. Vengono da tutto il Brasile, dalle periferie delle grandi metropoli, dai territori protetti del Mato Grosso, del Parà, dell’Amazzonia. Sotto l’attacco delle truppe speciali, fanno come hanno sempre fatto da cinquecento anni: resistono, coi loro corpi, i loro canti, la loro storia, la loro dignità, resistono. La nuova legge che si vota in parlamento è cruciale. Il presidente Bolsonaro, oltre a mantenere la sua promessa di non demarcare le terre indigene, fa molto di più: distrugge gli organismi federali di protezione e presenta la proposta di legge che permette la ricerca e l’utilizzo delle risorse naturali “utili allo sviluppo della nazione” anche se localizzate nei territori indigeni ad essi attribuiti. In pratica, alla ricerca di minerali e legno pregiato, “necessari al progresso nazionale”, si legalizza l’invasione e la distruzione ambientale dei territori protetti abitati dalle popolazioni originarie. I custodi della foresta continuano ad essere considerati come nemici da eliminare. Davanti al Parlamento, il gas dei lacrimogeni, gli spari delle pallottole di gomma, i manganelli, la Guerra Justa continua a fare le sue vittime.