Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo comunicato di Linea d’Ombra, un’organizzazione di volontariato nata a Trieste nel 2019 con il fine di raccogliere fondi per sostenere le popolazioni migranti lungo la rotta balcanica e ovunque potrà esserci bisogno.

Noi seguiamo quel che di terribile succede in Bosnia dal nostro osservatorio della piazza della Stazione di Trieste, parlando con alcuni operatori in Bosnia con cui siamo in contatto e naturalmente informandoci in tutti i modi possibili.

Abbiamo anche una visione di prospettiva temporale. Siamo andati per la prima volta in Bosnia nel ‘lontano’ giugno del 2018, ben prima della fondazione di Linea d’Ombra. Ci è perfettamente chiara la curva della catastrofe da quando la situazione, soprattutto nel cantone terminale di Una Sana, era tollerata da popolazione e autorità e avrebbe potuto essere facilmente gestita, avendo però una visione chiara su questo passaggio di un numero non esagerato di persone rispetto alle dimensioni dell’Unione Europea: poco più di 21.000 fra il 2018 e il 2019. Così non è stato, malgrado la non indifferente quantità di denaro che l’UE ha fatto scivolare in Bosnia (80 milioni di euro) e malgrado l’intervento dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, che ha gestito malissimo i campi.

Una catastrofe annunciata, dovuta alla volontà dell’UE di accogliere solo una piccola parte di migranti, quelli utili a riempire i vuoti di forza lavoro, attraverso la cinica selezione dei più forti: chi ce la fa a fare il game sfuggendo o resistendo alle polizie, soprattutto alla ferocia della polizia croata, potrà aspirare a un lavoro sottopagato, magari in nero o a forme di schiavitù nell’agricoltura. Degli altri – la maggioranza –  si deve occupare la Bosnia, con soldi dati dall’UE e prima di lei la Grecia e prima ancora la Turchia, dopo l’accordo miliardario del 2016.

La Bosnia è praticamente un protettorato internazionale, con tre etnie in discordia perenne tra loro, un governo centrale impotente, dieci governi cantonali con larga autonomia: un caos istituzionale. Si vede benissimo in questi giorni di caos tragico, sofferto nel freddo balcanico da migliaia di persone, come il governo centrale non sappia imporsi su quelli locali. Ci sono poi di mezzo anche i Comuni, come quello di Bihac, che non vuole la riapertura del campo di Bira, chiesto dal governo centrale e dall’OIM. E anche una parte della popolazione.

Tutto questo giro vorticoso di soldi, di complicità, inettitudine, indifferenza, egoismi nazionali e locali è una macchina trituratrice che funziona da cinque anni, che in Grecia ha già avuto e continua ad avere paesaggi da lager e in Bosnia ha continuato a peggiorare fino all’incendio del campo provvisorio di Lipa, che ha scatenato un piccolo putiferio mediatico, come se non fosse prevedibile un gesto di rottura!

Noi non siamo più andati in Bosnia – ovviamente – dalla fine del febbraio di quest’anno. Allora era ancora aperto il campo di Bira e l’epidemia non era arrivata sui fiumi bosniaci a rendere la situazione insostenibile. Continuiamo a mandare donazioni in denaro alle nostre interlocutrici di Bihac, Kladuša, Kljuc. Continuiamo a stare quotidianamente in piazza, dove ora arrivano pochi migranti, che aiutiamo ad andare dove desiderano. Ma riprenderanno ben presto a scendere. Non c’è dubbio! E noi, appena possibile, riprenderemo ad andare in Bosnia.