La pandemia in corso provocherà una situazione di grave recessione per l’economia italiana. Si valuta una perdita del PIL per l’anno in corso tra il 9% e il 10%. Il dato peggiore dell’Europa dopo la Grecia (come al solito).

Chiediamoci ora se questo dato è veramente catastrofico come sembra, e se le conseguenze per gli italiani saranno così brutali. La risposta che cercherò di argomentare di seguito è che in linea generale e prendendo certi provvedimenti la situazione potrebbe essere tenuta sotto controllo senza produrre gravissime conseguenze, ma purtroppo dentro i meccanismi e le regole imposte dallo strapotere della finanza globale e dalle politiche neoliberiste che l’assecondano, la risposta diventa “si”, le conseguenze potrebbero essere, e con ogni probabilità, saranno disastrose!

Per avere una idea della entità delle perdite si può fare un raffronto col passato usando il PIL netto (cioè il PIL a prezzi costanti, in parole povere, al netto dell’inflazione). E’ probabile che l’arretramento ci porti indietro di una trentina d’anni. La cosa in sé, considerata astrattamente nella sua generalità potrebbe non apparire catastrofica. Tutti coloro che hanno vissuto quegli anni (e siamo in molti, visto l’innalzamento della vita media) non hanno ricordi da periodo di vacche magre. E se per assurdo si va indietro nel tempo, per esempio fino agli anni cinquanta, ci si ritrova in un clima di grande euforia da boom economico, anche se in realtà il PIL netto dell’epoca era di tantissimo inferiore a quello attuale.

Naturalmente sappiamo tutti che la percezione soggettiva è sempre relativa al rapporto tra situazione di partenza e aspettative, il che rende del tutto impossibile fare un raffronto tra epoche diverse e lontane nel tempo. Mi sia però permesso sottolineare come “la relatività” della percezione rispetto ai cicli di crescita e di recessione ha senso dentro una dinamica che comunque vede nel complesso un costante aumento della ricchezza prodotta. Il problema allora, considerato sul medio periodo, non è l’arrestarsi della crescita che comunque sappiamo destinata a ripartire, quanto piuttosto interrogarsi su come vengono distribuiti gli effetti negativi della crisi e su chi in definitiva dovrà pagare il conto. Il problema insomma non è la recessione in sé, ne il tornare indietro (momentaneamente) di qualche anno, quanto la gestione e la ripartizione delle perdite.

Partiamo dalla costatazione che nel modo di produzione capitalista le diseguaglianze sociali non sono solo un prodotto della macchina produttiva ma un presupposto del suo stesso funzionamento. Marx ci insegna che senza la brutale rapina dell’accumulazione primitiva il capitalismo non si sarebbe mai messo in moto. Oggi uno dei caratteri specifici e più significativi dei meccanismi di funzionamento del capitalismo nell’era della finanza globale è il divenire permanente della espropriazione e della rapina ai fini dell’appropriazione e di una accumulazione “brutale”,non più solo primitiva. Questa rapina è resa possibile e generata dalle diseguaglianze sociali e a sua volta genera nuove diseguaglianze, acuendo e cronicizzando quelle pregresse. La condizione ideale per la produzione e riproduzione delle diseguaglianze è esattamente quella che si determina nelle situazioni di crisi recessive. Nulla conta, a questo proposito , che la crisi sia il prodotto del ciclo economico o l’effetto di un evento naturale come una inattesa pandemia. L’importante è creare, o comunque approfittare, delle situazioni di difficoltà per mettere in moto la macchina del dominio, attraverso la vera arma di distruzione di massa su cui si costituisce e si fonda il dominio della finanza. Ci riferiamo al ricatto del debito, con cui gli Stati (spesso complici), le comunità, le moltitudini, le famiglie e i singoli vengono tenuti sotto scacco nel presente per ipotecare e controllare il loro futuro. La macchina del debito ha bisogno della crisi per riprodurre se stessa, per questo genera l’emergenza (o approfitta delle emergenze comunque prodottesi) come condizione permanete legata alla tendenziale inestinguibilità del debito stesso.

Funzionale alla riproduzione delle condizioni del dominio nelle condizioni emergenziali è lo sviluppo di una collaudata strategia del terrore come condizionamento di massa. Il riferimento non è qui a situazioni specifiche tratte dalla cronaca e legate all’attuale pandemia, che per i meccanismi del potere è solo una opportunità in più, ma sulla cui effettiva pericolosità, sia detto tra parentesi, il sottoscritto ha pochi dubbi.Si tratta piuttosto di una strategia “permanente “ del terrore legata alla esigenza di riprodurre la stessa crisi , attraverso l’uso spregiudicato, martellantee ricattatorio, dei numeri della finanza.

Si tratta spesso di numeri inventati dalle politiche neo liberiste, come nel caso dei diktat sul rapporto PIL deficit, o PIL debito pubblico, o sui limiti dell’inflazione. Altre volte sono numeri reali ma trattati come verità assolute e prodotti da una scienza (presunta) esatta che pesano sugli uomini come la colpa d’un peccato originale o come la sentenza d’un male incurabile.

Abbiamo detto all’inizio del nostro discorso, che fuori dalle leggi despotiche della finanza, crisi sociali, recessioni economiche ed emergenze d’ogni tipo non sarebbero in sé un problema. L’unica vera questione sarebbe quella di ripartire equamente tra i cittadini, le famiglie e le imprese piccole medie, le perdite complessive, attraverso aiuti economici adeguati, diretti e incondizionati. L’aspetto decisivo, e “rivoluzionario” rispetto all’esistente, è che la forte immissione di liquidità che ciò comporterebbe, andrebbe finanziata attraverso la creazione di una moneta non a debito. Moneta creata dal nulla si potrebbe dire. Il che è vero ma solo nel senso di non essere espressione di denaro accumulato, e dunque moneta che non è “capitale”, nel senso marxiano di non essere titolo di proprietà sul lavoro futuro, e non è neppure “capitale-debito”, nel senso di non essere appropriazione della ricchezza futura. Moneta nel senso originario di mezzo di scambio funzionale alla circolazione della ricchezza, nel nostro caso a vantaggio dei più svantaggiati, nella tasche dei quali la nuova liquidità verrebbe immessa. Che ciò possa creare inflazione in una situazione di stagnazione o di recessione non lo credo. E comunque l’eventuale moderata inflazione sarebbe solo il segno di una ridistribuzione più giusta. Si tenga conto infine che l’apporto di liquidità (come da manuale) farebbe crescere la domanda aggregata promuovendo attraverso il cosiddetto moltiplicatore keynesiano la ripresa economica, che nei termini della nostra ipotesi produrrebbe contemporaneamente (come “non” da manuale) una riduzione della disparità sociali.

Come si vede è possibile pensare la crescita non come necessariamente figlia del capitalismo e della finanza, e dunque non necessariamente creatrice di nuove diseguaglianze sociali, di nuovi “assoggettamenti” e di nuove catastrofi.

Una “crescita sostenibile” è possibile! A condizione che a differenza di quanto spesso avviene oggi, alla sostenibilità ambientale si sommi e si integri, come fondante e ineludibile, una sostenibilità sociale, basata sull’uguaglianza e su una equa distribuzione delle ricchezze e delle risorse socialmente disponibili.

Antonio Minaldi