Ho cominciato col bagnare con acqua il pavimento del bagno – il mio primo mestiere di casa da quando ero arrivato all’appartamento. Era solo un posto letto, un letto in una stanza con altre quattro persone con cui ho imparato a convivere poco a poco.
Lasciatemi collocare la storia: agosto 1999. Harlem Spagnolo, all’epoca un quartieraccio tremendo, ma l’unico posto che avevo trovato per vivere. Avevo trovato la stanza tramite un annuncio scritto a macchina, attaccato su un lampione da qualche parte che non ricordo. Il testo diceva “Offriamo un posto letto a un uomo, single, senza vizi. Siamo Mormoni. Non usiamo la TV dopo le 10 di sera e dividiamo le faccende di casa – senza aria condizionata, solo un letto”.
Bene, era quello che potevo permettermi.
Ma torniamo alle pulizie del bagno. Era il mio giorno secondo quello che c’era scritto sullo sportello del frigorifero. L’edificio sorgeva all’angolo della 103 con Lexington, era molto antico. Le scale erano storte e per arrivare al terzo piano era un sacrificio. Quando meglio, quando peggio. E noi salivamo con pesanti sacchi della spesa. Nell’appartamento c’erano due brasiliani, compreso Edson che gestiva i posti letto. Da anni negli Stati Uniti, senza documenti, affittava letti a castello ai suoi fratelli della Chiesa dei Santi degli ultimi giorni – ma per me erano angeli dei primi giorni, delle mattine calde e insopportabili d’estate. La città trasudava conflitti, sapeva di spazzatura eppure tutti noi volevamo stare lì.
Ma le pulizie. Sì. Le pulizie spiegano bene tutta la disperazione di chi si trova in un campo minato e sconosciuto. E io versavo secchi d’acqua e l’acqua spariva. Un secchio dopo l’altro e mi chiedevo: “Come faccio a lavare il bagno in questo modo? Non era così che faceva mia madre, Dona Arlete?” – ricordai. Si mette l’acqua in un secchio con il disinfettante, un Pinho Sol qualunque (marca popolare brasiliana di detersivi N.d.T.) e poi la si butta sulle pareti, sulle piastrelle e si spazza tutto fino allo scarico. Ma, e se non ci fosse lo scarico?
Per fortuna – mia e della messicana che abitava al piano di sotto -, Aramis, uno dei ragazzi che viveva nell’appartamento era tornato a prendere lo zaino e mi aveva visto disperato e sudato.
– Amico, qui non c’è lo scarico. Tutta quest’acqua può danneggiare il soffitto della vicina di sotto. È meglio se vai ad avvisarla.
La missione non era facile. La mia prima settimana ed ero già sul punto di litigare con una vicina e di attirare l’attenzione sulla mia totale mancanza di nozioni su come lavare un pavimento. Sono sceso correndo per le scale storte e sono arrivato alla porta della vicina in pochi secondi. Lei ha aperto e mi ha guardato diffidente.
“Hola”
Dietro di lei, in quel momento, è caduto un pezzo di soffitto, e si è formata una cascata nella sala. I suoi tre figli giocavano come se stessero facendo la doccia sotto la pioggia mentre io la aiutavo a mettere pentole e bacinelle per contenere l’inondazione. Aramis si contorceva dalle risate sul divano dell’appartamento di sopra. Questo è stato il mio battesimo, con acqua sulla testa e tutto il resto. La messicana mi ha perdonato, dopo che le ho promesso di aiutarla a pulire la casa. La nostra pace sarebbe durata poco, visto che era solita organizzare feste fino a tardi e i miei compagni di stanza, molto religiosi, avrebbero dichiarato una guerra santa contro i mariachi, che facevano tremare il pavimento.
L’edificio ospitava a piano terra una Santeria e le sue pareti erano ricoperte da immagini di orixás (semidivinità, N.d.T.) – tutti appartenenti alle religioni di matrice africana di Cuba e Porto Rico, con molte somiglianze e nomi che conoscevo dalla mia infanzia a Rio. Ai mormoni non piacevano molto quelle immagini sulla porta, ma non potevano farci niente. Il venerdì sera si sentiva la musica dei tamburi fino a tardi. Edson e i ragazzi spegnevano le luci e si sdraiavano per chiamare la polizia.
– “Stai lì tranquillo così non sanno che siamo stati noi” – mi hanno avvisato una volta.
In pochi minuti arrivava la polizia e si faceva un gran silenzio, Edson allora sussurrava:”Ce l’abbiamo fatta”!

Hispanic Harlem. Foto di Marco Da Costa

Dopo qualche istante guardavamo e la polizia se n’era andata. Tum tum tum – e i tamburi riprendevano, il palazzo vibrava di suoni ancestrali. Io, sdraiato, guardavo verso il soffitto e mi sentivo in qualche posto a Rio, il calore, il suono dei tamburi, le grida e gli spari nella notte. Edson diceva che era qui solo per guadagnare soldi e poi tornare in Brasile. Con l’aiuto di alcuni russi lavorava in un ufficio di carte di credito e vendita di carte telefoniche. All’epoca, senza internet, spendevamo 20 dollari per parlare sette minuti con il Brasile. La vendita di carte promozionali era la nostra salvezza e anche una fonte di rendita per molte aziende.
Erano tempi difficili e deliziosi. Anni dopo sono andato ad abitare nell’appartamento di una dominatrice – da un opposto all’altro, e ho visto le torri che si scioglievano a settembre, avvolte dal fumo e dalla sofferenza. Non ho mai più visto o incontrato nessuno di quei tempi e luoghi. Ho saputo su Orkut (social network molto diffuso in Brasile, N.d.T.) una decina di anni dopo, che Edson era tornato finalmente in Brasile con 100 mila dollari ed era stato derubato. Sogni distrutti qua e là, per lui e per molti altri. Come dice la canzone di Sinatra “se ci riesci qui, ci riesci ovunque”. New York è una città che può essere un inferno, o un paradiso. Per quelli cresciuti nella Babilonia di Rio de Janeiro, come me, è un “purgatorio di bellezza e caos” un po’ meno complicata, ma per quelle migliaia di persone che arrivano da città calme e tranquille dell’America Latina, è una trappola.
Oggi, trenta anni dopo le avventure nella “repubblica dei mormoni”, immagino quanti alti e bassi ci capitano, quanti si sono persi nel cammino. La mia agenda dell’epoca esiste ancora – ho conservato per anni una collezione di agende con gli scarabocchi di ogni informazione e contatto che facevo. Dentro, quasi nessun nome è sopravvissuto a questa giungla d’asfalto. La maggior parte è tornata in Brasile e non ha resistito alla crisi del post 11 settembre. Io stesso ho abbandonato la città, sicuro che non ci sarei più tornato. In fondo, non sono mai stato capace di dire addio. L’aeroporto JFK mi ha visto atterrare decine di volte, tutte con un ampio sorriso e la voglia di ricominciare.
Oggi sono passato da Harlem Spagnolo, “El Barrio” come viene affettuosamente chiamato dai suoi abitanti – totalmente gentrificato con vari palazzi moderni e cari – e all’improvviso mi sono ritrovato davanti al palazzo delle mie pulizie incompetenti, dei letti a castello, della repubblica mormona. La Santeria è diventata un fast food, ma sulle pareti esterne ci sono ancora i disegni degli orixás, ora trasformati in mosaici colorati. È tutto più pulito e organizzato, ma l’anima del posto continua a vivere nei sorrisi e nelle persone che sono rimaste.
La città si trasforma, prende elementi del passato, rendendo eterna la nostra storia. I suoni e i tamburi, i canti delle chiese pentecostali, le ragazze con i pantaloncini corti continuano ad attraversare le porte del vecchio palazzo. Il rumoroso e colorato “El Barrio” è sempre più vivo.

Traduzione dal portoghese di Raffaella Piazza. Revisione: Silvia Nocera