Io sono l’abisso, il negrume, la notte, il grido di un bambino,

l’onda che ti affoga,

l’acqua già ingoiata,

i tuoi occhi sigillati, la tua mano legata,

il definitivo sparo al cuore,

lo schiavo fuggito, la fuga frustrata,

stagno immobile, vastità,

La goccia, io sono, 

e la lapide scavata,

il buco sporco, la ruggine rovinata,

il passo che separa,

la verità ingannevole,

l’amico dimenticato, il bicchiere svuotato,

l’erba mal tagliata.

Io sono l’odore,

fetore che impregna le pietre del ricordo

io sono la pancia, e il lento ritardare della digestione.

Sono tutto ciò che sognai,

la morte, l’animale, la disperazione,

cantore senza voce, tombino,

dolore, pezzo di vetro, la paura,

fumo e cencio,

cassonetto sporco, sangue coagulato,

Io sono la solitudine,

la rima inutile nel vento dell’illusione,

E tu, perduto, sconfitto,

vagante sino all’esaurimento,

senza casa né pietà e pane,

ora sei come me, ugualmente devastato,

libro chiuso,

cemento armato,

sirena nel cervello,

città

cane.

E mentre il governo annuncia il taglio del cinquanta per cento del sussidio di emergenza, la violenza continua ad abbattersi sui più deboli. Non è bastato umiliare la popolazione in file omeriche davanti ai portoni delle banche che, invece di informare sull’uso degli aggeggi elettronici – unico mezzo disponibile per iscriversi nel registro, unico mezzo tra la sopravvivenza e la definitiva esclusione – respingevano i postulanti con burocratica efficienza; non sono stati sufficienti gli attacchi alla vita e l’esaltazione della morte in parole opere e omissioni presidenziali. Adesso, dice il governo, è venuto il momento di tagliare, cinquanta per cento, la metà del valore a cui si aveva diritto. Punto e basta.

Punto e basta anche per quel ragazzino che si trova sotto lo stivale della polizia qui davanti a me, tra l’indifferenza generale dei passanti. Vendere cianfrusaglie è la sua imperdonabile colpa. Per questo le urla, le botte sorde del manganello sulla schiena. E il poliziotto mentre sbraita il suo odio tra gli insulti e le pedate, distrugge la miserabile mercanzia di contrabbando. E ride, sghignazza, come da copione di film americano. E quando non c’è più niente da distruggere, il poveretto è spintonato sulla vettura, o meglio, nel portabagagli della vettura. Sì, il portapacchi. Qui i ladri, gli assassini, i venditori di cianfrusaglie, si sbattono nel portapacchi e si portano in guardina dove li attende il resto. È finita. La città può respirare tranquilla, più pulita e sicura, l’ingresso della metropolitana è liberato, nessuno più ad ostruire il passaggio della gente, la stessa gente abituata a tutto, la stessa gente che sembra aver abbassato la testa per sempre. Nella storia dell’orrore quotidiano, questa è l’ennesima scena che svanisce nel decorso del suo accadere, un episodio senza alcun valore, una nuvola di fumo. Io, spettatore senza azione, trattenevo senza riuscirci la mia voglia di vomitare, la mia impotenza, la mia vita inutile. 

Era come vedere il mio passato ripetersi, anni e anni di lavoro con i bambini di strada e nelle favelas più dimenticate: è stato come il morso della frustrazione venuta ad annunciarmi che è stato tutto inutile. Mille anni fa, in piazza, la roulotte della base comunitaria della polizia. Era facile torturare i bambini che vagavano in quei paraggi. Due fili elettrici, la scossa, uno schiaffone, un calcio e alla fine la sigaretta sulla pelle, quanto basta per non dimenticare. I bambini arrivavano a noi morti di paura e di rabbia, giuravano vendetta, corpi sbriciolati, briciole di corpi, anime stritolate. 

Le denunce non interruppero l’azione nefasta della polizia che godeva dell’appoggio dei bravi cittadini del quartiere, i commercianti e i loro rappresentanti istituzionali ad esigere il decoro urbano. I bambini di strada, nella loro irriverente sporcizia, spaventavano la clientela. Tra i clienti e i bambini, la scelta era ovvia. 

Oggi, mille anni dopo, in piena pandemia, quando tutto è già corroso dalla nuova normalità, nella quale mille morti al giorno non spaventano più nessuno, un giovane venditore ambulante sente nella carne tutta la crudeltà del dogma meritocratico, semplicemente per cercare di sopravvivere fuori dalle regole, in una città come la nostra dove tutti hanno il loro ruolo stabilito, dove la vittima e il carnefice sanno sempre cosa devono fare.