E così, con qualche sorpresa, ma molte trappole disseminate nel percorso istituzionale degli ultimi tempi, si è giunti allo show-down del neonato governo di Albin Kurti, in Kosovo: “parlamentarizzata” la crisi, approvata una clamorosa mozione di sfiducia, caduto il governo. Uno show-down che tuttavia è difficile considerare, a tutti gli effetti, una sorpresa, anticipato com’è stato da una serie di vicende che hanno letteralmente terremotato il sistema politico dell’auto-governo kosovaro e con una serie di momenti, interni ed esterni, che ne hanno decisamente condizionato la sopravvivenza.

Con una premessa fondamentale, come talvolta si sente ripetere nella regione, «nella politica del Kosovo, nulla si muove che l’ambasciata statunitense non voglia». E proprio così sembra essere andata anche questa volta. La prima tappa di questa vera e propria escalation istituzionale è stata lo «scontro sui dazi»: da tempo, il Kosovo ha imposto delle tariffe “doganali” ai prodotti importati dalla Serbia e dalla Bosnia Erzegovina, una misura delicata e particolarmente sensibile, oggi senza dubbio oscurata dalla vicenda coronavirus, ieri tuttavia al centro della crisi internazionale dei dazi, nel pieno della “guerra commerciale” che, avendo opposto in primo luogo gli Stati Uniti alla Cina, aveva poi finito per scatenare le proprie ripercussioni sull’intero commercio internazionale. Il superamento del conflitto commerciale tra Belgrado e Prishtina era stato posto come condizione per la ripresa del dialogo tra le due capitali, volto al raggiungimento di una soluzione negoziata, politica, per dare finalmente seguito alla volontà, da tante parti dichiarata e in tante circostanze ribadita, di provare a risolvere la controversia kosovara.

Da una parte, la presenza dominante degli Stati Uniti, sostenitori della rimozione dei dazi per la ripresa del dialogo; dall’altra, il conflitto istituzionale tra le principali cariche dell’auto-governo kosovaro, il premier Kurti, intenzionato a mantenere i dazi in assenza di analoghe mosse da parte di Belgrado, il presidente Thaci, propenso a riprendere il percorso istituzionale e non “incrinare”, come pure si è detto, le relazioni con Washington. Ripercussioni economiche finirà inevitabilmente con avere adesso, peraltro, anche la crisi epidemiologica da coronavirus, che pure sta attraversando pesantemente il Kosovo, che si avvicina pericolosamente alla soglia dei cento contagi e già conta, purtroppo, una vittima.

Anche il Kosovo è dunque entrato nella fase delle gravi decisioni in ordine alla calibratura della risposta da organizzare e delle misure da intraprendere per contrastare la pandemia ed anche su questo si è consumato su uno scontro tra Kurti, più propenso a misure fortemente restrittive contro il COVID, e Thaci, che, in una conferenza stampa, ha sferrato un durissimo uno-due al premier: dapprima ricordando di avere inviato una lettera ufficiale a Kurti con la richiesta di rivedere la decisione sulle misure restrittive proposte che avrebbero creato «paura e panico, confusione e incertezza tra i cittadini», poi appellandosi direttamente alla Corte Costituzionale per sospendere le nuove misure intraprese dal governo in quanto «fortemente restrittive della libertà di movimento dei cittadini».

In questa maniera, al di là del merito delle dichiarazioni e delle misure intraprese, il conflitto politico è tracimato in conflitto istituzionale, e la rottura ha finito per condizionare inevitabilmente i rapporti all’interno del governo e gli equilibri nel dibattito parlamentare: non va dimenticato infatti che il governo Kurti si è retto su una delicata alleanza tra il suo movimento politico, Vetëvendosje (Autodeterminazione), e uno storico esponente della scena politica kosovara, la LDK (Lega Democratica del Kosovo), per anni protagonista di alleanze parlamentari e “di governo” con l’altro rappresentate storico della politica kosovara, vale a dire il PDK (Partito Democratico del Kosovo), più fortemente orientato in senso conservatore, espressione del presidente Thaci.

E così la rottura ha finito per coinvolgere tutti gli attori politici della scena kosovara e la crisi è risultata non più rinviabile: quando il ministro dell’interno dell’autogoverno kosovaro, Agim Veliu dell’LDK, ha sostenuto ufficialmente la posizione del presidente sull’emergenza coronavirus, Kurti ha pensato bene di proporne le dimissioni; a tal punto l’LDK ha ritirato il proprio sostegno al governo, e la mozione di sfiducia presentata al parlamento ha finito con il ricevere 82 voti sui 120 del plenum. Si apriranno nuove consultazioni e si definirà una nuova alleanza di governo, al momento difficile da prevedere; ciò che si può dire è che, a dispetto di quanto possa sembrare, non si tratta di una “crisi da coronavirus”. Ancora una volta si tratta di una crisi con al suo sfondo i rapporti e il dialogo, da rilanciare, tra Belgrado e Prishtina: è stato lo stesso Kurti a denunciare in aula l’esistenza di un accordo segreto tra Thaci e il presidente serbo Aleksandar Vučić per risolvere la questione kosovara con uno «scambio di territori»: una vecchia proposta con la quale il Nord del Kosovo sarebbe definitivamente integrato alla Serbia e la Serbia proporrebbe in cambio la Valle di Preševo al Kosovo.

Ma gli interrogativi restano: una divisione territoriale su base etnica per rilanciare e promuovere il dialogo tra serbi e albanesi?