La Regione Piemonte distribuirà in tutte le scuole superiori del territorio una copia del fumetto Foiba rossa. Norma Cossetto, storia di un’italiana edito da Ferrogallico. Il volume racconta la storia della giovane studentessa istriana 23enne morta nel 1943.

Condividiamo la preoccupazione per lo sdoganamento progressivo del  revisionismo storico-culturale del periodo fascista. Ci è sembrato tuttavia di notare, nell’evolversi del dibattito, una sorta di nebulosità generale riguardo alla conoscenza dei fatti realmente accaduti.

E’ diventato necessario rivolgersi ad un esponente della categoria che, per definizione, recupera ed analizza i dati completi per una chiave di lettura del periodo: uno storico.

Abbiamo quindi cercato di fare il punto sull’argomento con Alberto Pantaloni, Dottore in Scienze Storiche e Documentarie e  membro della redazione centrale della rivista di storia critica «Historia Magistra».

Quale è la tua opinione nel merito di questa iniziativa?

La ritengo fondamentalmente una speculazione politica, un’operazione di propaganda da parte delle forze politiche che sono al governo della Regione in questo momento.

Il problema qui non è il fatto che la casa editrice sia vicina a formazioni di estrema destra o che vi scriva il figlio di Mario Merlino (che è libero di scrivere dove vuole), ma il fatto che l’Assessora all’Istruzione (Elena Chiorino di Fratelli d’Italia) decida di investire 6000 euro di soldi pubblici per far diffondere un fumetto che non ha alcuna aderenza storica degli eventi, dal valore quindi assolutamente diseducativo. Non c’è alcuna memoria condivisa da favorire in questa operazione, perché si tratta di una ricostruzione di un episodio drammatico e crudele, come la morte di Norma Cossetto, al di fuor di qualsiasi contesto storico, anzi in un contesto storico artefatto, nel quale si omettono le responsabilità del nazifascismo nella mattanza della Seconda Guerra Mondiale o addirittura si parla di «Jugoslavi invasori dell’Istria». D’altronde, come ha recentemente ricordato anche Angelo d’Orsi, viviamo in un’epoca pericolosa, nella quale i fatti storici non sono più di pertinenza della storiografia, cioè della comunità interpretativa che li studia (o dovrebbe farlo) in modo rigoroso e scientifico, ma della politica e della magistratura.

Perché a tuo parere, il tema delle foibe è stato sempre così caro alle destre italiane? 

Diciamo che il fenomeno storico delle Foibe e dell’esodo degli Italiani dalla Giulia subito dopo la fine della guerra, così come quello delle “ritorsioni” contro esponenti grandi e piccoli del fascismo e della Repubblica sociale italiana da parte di pezzi del movimento partigiano e comunista (si pensi alla “Volante Rossa”) è sempre stato il cavallo di battaglia di una destra radicale e neofascista che ha tentato in questo modo di ricostruirsi una “verginità politica”, ispirando una visione dei sanguinosi eventi di quel periodo improntati a una sorta di “equivalenza”, di “equidistanza” fra fascisti e repubblichini da una parte e partigiani (in particolar modo quelli azionisti e social-comunisti) dall’altra.

Qual è il contesto storico in cui è maturato l’eccidio delle foibe?

Partendo dal generale al particolare, gli eventi vanno posizionati all’interno di quella che prima il filosofo tedesco prestato alla storia (da revisionista) Ernst Nolte e poi gli storici Eric Hobsbabwm ed Enzo Traverso hanno chiamato la «guerra civile europea» (1914-1945) fra fascismo e antifascismo, una guerra civile che ha però responsabilità chiare ed inequivocabili nei cosiddetti Imperi centrali prima e nelle potenze dell’Asse nazifascista dopo. La loro politica colonialista, razzista e di sopraffazione non ha prodotto “solo” la Shoa, ma persecuzioni che, oltre all’eliminazione fisica di qualunque opposizione politica democratica, sono sfociate in vere e proprie operazioni di pulizia etnica. Mussolini vedeva l’Italia come un centro propulsore di una nuova Europa, ispirato all’ideologia fascista. La rivista «Antieuropa» (la testata, creata dal regime, è già eloquente) scriveva che «L’Europa di domani sarebbe stata fascista e arrogantemente aggressiva, poi ché nel mondo non restava spazio alcuno per i deboli e i timorosi». Questa arroganza aggressiva fu praticata anche sul confine orientale italiano e già prima dell’avvento al potere del fascismo. Le popolazioni slovene e croate persero quella autonomia culturale e linguistica di cui avevano sempre goduto durante il dominio asburgico. Come ha recentemente scritto Piero Purini, già all’indomani della fine della prima guerra mondiale, l’autorità italiana ha imbastito una politica di espulsione di tutti i cittadini di nazionalità variamente slava e austro-tedesca. Parliamo di un vero e proprio spopolamento della Venezia Giulia. Ad esso, lo Stato italiano prefascista prima fece corrispondere una massiccia militarizzazione dei territori e poi una altrettanto copiosa immigrazione “italiana”. Il fascismo, infine, completò l’opera di “bonificazione etnica” attraverso l’assimilazione forzata o l’espulsione dei residui esponenti della comunità slovena e croata, con annessi frequentissimi episodi di violenza con arresti, bastonature, uccisioni e torture di slavi. Nell’aprile del 1941, quando le forze armate tedesche e italiane oltrepassarono i confini della Jugoslavia, il capo del fascismo dettò la linea da tenere nei confronti delle popolazioni slave quando affermò: «Mettiamoci bene in testa che questa gente non ci amerà mai. Quindi nessuno scrupolo». Per il duce, bisognava procedere «con l’annientamento di uomini e cose». Ancora, il 1° marzo 1942, in una circolare del famigerato generale Mario Robotti e dell’alto Commissario per la Provincia di Lubiana Emilio Grazioli, veniva ordinato ai militari italiani di «internare a titolo protettivo, precauzionale e repressivo, individui, famiglie, categorie di individui delle città e delle campagne e, se occorre, intere popolazioni di villaggi e zone rurali…compresi i ceti più elevati». Ciò non poteva non avere conseguenze: già molto prima dello scoppio del secondo conflitto mondiale, le società segrete irredentiste slave, preesistenti allo scoppio della Grande Guerra, si erano rese responsabili di numerosi attacchi a militari, civili e infrastrutture italiane. Infine di nuovo Mussolini, il 31 luglio 1942 dichiarò che ai partigiani bisognava rispondere con il ferro e con il fuoco: «Deve cessare il luogo comune che dipinge gli italiani come sentimentali incapaci di essere duri quando occorre. Questa tradizione di leggiadria e tenerezza soverchia va interrotta». Nessuno scrupolo bisognava avere per le sofferenze delle popolazioni, se appoggiavano il movimento di liberazione, dovevano pagarne le conseguenze, scrisse il dittatore.

La stessa relazione della Commissione storico-culturale italo-slovena, incaricata dal Governo italiano e dal Governo sloveno di mettere a punto un’interpretazione condivisa dei rapporti italo-sloveni fra il 1880 e il 1956, dichiarò nel 2001 che foibe ed esodo giuliano «si verificarono in un clima di resa dei conti per la violenza fascista e di guerra e appaiono in larga misura il frutto di un progetto politico preordinato, in cui confluivano diverse spinte: l’impegno a eliminare soggetti e strutture ricollegabili (anche al di là delle responsabilità personali) al fascismo, alla dominazione nazista, al collaborazionismo e allo stato italiano, assieme a un disegno di epurazione preventiva di oppositori reali, potenziali o presunti tali, in funzione dell’avvento del regime comunista, e dell’annessione della Venezia Giulia al nuovo Stato jugoslavo. L’impulso primo della repressione partì da un movimento rivoluzionario che si stava trasformando in regime, convertendo quindi in violenza di Stato l’animosità nazionale e ideologica diffusa nei quadri partigiani». Al di là delle valutazioni politiche che ognuno può fare, non c’è alcun richiamo o riferimento a presunti “genocidi” o “pulizie etniche” di Italiani.

Ci sono dati attendibili sull’ampiezza del fenomeno?

È impossibile una stima precisa delle vittime ritrovate nelle foibe, a causa della quasi totale mancanza di documenti. Tuttavia, recenti studi (riassunti dallo storico Jože Pirjevec nell’intervista concessa a «Internazionale»), fanno credere che fra infoibamenti, esecuzioni sommarie, decessi per malattie dovute alle deportazioni o agli imprigionamenti, non si dovrebbero superare le 2.630 persone. Nel giugno del 1945, la Commissione Alleata di Controllo del generale Eisenhower ritrovo nella foiba di Basovizza 150 corpi, dei quali 149 soldati tedeschi e un civile. Parlare quindi di «genocidio italiano» come fanno le forze politiche di estrema destra, è non solo storicamente sbagliato, ma politicamente irresponsabile. Stesso discorso vale per l’esodo dai territori assegnati alla Jugoslavia alla fine della guerra: la propaganda parla di 350.000 persone (dati non verificati né dimostrati). Lo storico Sandi Volk, anch’esso intervistato da «Internazionale», prende come base il censimento precedente allo scoppio del conflitto: ipotizzando che tutti gli Italiani siano fuggiti dall’Istria e da Trieste (cosa che in tutta evidenza non è accaduta), si arriverebbe a un numero poco inferiore le 157.000 persone.

Ci sono dati attendibili sui crimini di guerra italiani in Slovenia e Croazia?

Lo storico Eric Gobetti, pur ammettendo che sia impossibile arrivare a una quantificazione esatta, ci fornisce dei numeri parziali che ci fanno cogliere meglio il contesto di cui parlavo prima: circa 7.000 fucilati fra Sloveni e Montenegrini e circa 100.000 i rinchiusi nei campi di concentramento, dei quali 5.000 morti di stenti e di malattie. A questi, ricorda sempre Gobetti, andrebbero poi sommate le vittime, non quantificabili, dovute alle deportazioni, alle distruzioni dei centri abitati, o alle azioni dei collaborazionisti del nazifascismo (ustascia croati, cetnik serbi, ecc.).

 

Alberto Pantaloni si è laureato in Scienze Storiche e Documentarie con una tesi su Eric Hobsbawm. È membro della redazione centrale della rivista di storia critica «Historia Magistra». Nei suoi studi si è prevalentemente occupato di storia dei movimenti sociali e politici nell’Italia degli anni Settanta, del movimento delle donne nel Novecento italiano e di storia della storiografia marxista in Gran Bretagna. E’ autore dei libri “La dissoluzione di Lotta continua e il movimento del ’77” e “1969. L’assemblea operai studenti” (DeriveApprodi).