In questi tempi di grande divisione e profonda disperazione se c’è un consenso su qualche cosa è sul fatto che il futuro sarà terribile. Il mondo – e con esso l’Italia – è scosso da una profonda e sfaccettata crisi politica, ambientale ed economica: termini astratti e grandi, che possono apparire distanti ma che si riflettono sulle vite di tutti noi. Se non tutti, infatti, possono permettersi il lusso di seguire i numerosi dibattiti in atto perché pressati da ben altre urgenze, tutti subiamo sulla nostra pelle le conseguenze di questa sfaccettata crisi. Possiamo percepirle come ansia e solitudine – oggi epidemiche e sintomo di un problema collettivo – o come un malessere rispetto al clima di odio in cui siamo immersi.

Nell’immaginare futuri prossimi o lontani le cose non vanno affatto meglio: gli scenari apocalittici sono diventati un risvolto probabile della crisi climatica in atto, mentre le distopie prodotte dalla fantascienza appaiono sempre di più come una buona approssimazione delle sfide tecnologiche, economiche e politiche da affrontare nei prossimi anni.

Siamo molto bravi a immaginare catastrofi, estinzioni e quei futuri che sono un proseguimento o l’accentuazione degli aspetti critici già esistenti. Non siamo bravi, invece, a immaginare i futuri possibili – quelli che lavorano sulle capacità latenti – in cui potremmo trovare soluzioni verso una maggiore sostenibilità e capacità di vivere in armonia.

“Non c’è alternativa” – era il motto di Margaret Tatcher – e ancora oggi la sensazione che non esistano alternative all’attuale modello economico, come ai suoi risvolti ambientali e sociali è permeante. L’incapacità di immaginare un mondo in cui le cose siano differenti, tuttavia, non è certo prova dell’impossibilità di un cambiamento. Piuttosto di una scarsa immaginazione – almeno a detta di Rutger Bregman, autore del best seller “Utopie per realisti. Come costruire davvero il mondo ideale.”

Il problema del futuro, sotto questa luce, appare essere un problema narrativo. Una prospettiva che ricalca l’affermazione – ricorrente nei testi di attivisti e scrittori come Naomi Klein, Amitav Ghosh e Davide Wallace-Wells – secondo cui la stessa crisi climatica è frutto di un fallimento dell’immaginazione. Questa argomentazione, di fronte ai problemi pratici e tangibili che siamo chiamati a risolvere nei prossimi anni potrebbe sembrare ingenua. Come può l’immaginazione – spesso relegata alla vita dei bambini, degli artisti o dei fannulloni – essere la chiave?

Lo storico Yuval Noah Harari, nel suo recente saggio “XXI Lezioni per il Ventunesimo Secolo” argomenta che gli esseri umani hanno ottenuto il controllo del mondo non tanto grazie alle loro invenzioni tecniche, quanto per la capacità di costruire, diffondere e credere loro stessi nelle storie che raccontano. Queste storie sono alla base della nostra capacità di cooperare. “Poeti, pittori e drammaturghi” – in tal senso – “sono almeno tanto importanti quanto i soldati o gli ingegneri.” L’immaginazione precede di un passo la tecnica e la contemplazione del possibile precede l’azione. Come tante generazioni prima di noi le persone sono andate in guerra e hanno costruito cattedrali nel nome di Dio, anche la nostra attuale mitologia moderna è sorretta dalle creazioni artistiche di Netflix e dell’industria pop.

E se costruissimo miti e immagini diverse? Il tema dell’immaginazione al potere non è certo nuovo – risale ai tempi del filosofo Herber Marcuse e del sessantotto – quando si argomentava che la ragione non fosse più in grado di trascendere la realtà e di opporre un “grande rifiuto” al modello vigente. L’immaginazione, in tale quadro, restava l’unico strumento capace di comprendere le cose alla luce delle loro potenzialità. Da quegli anni alcune cose sono cambiate e non certo in positivo.

La nostra immaginazione collettiva appare sempre più erosa da una commistione di condizioni – passiamo sempre meno tempo all’aria aperta e sempre più tempo chiusi fra quattro mura, davanti ad uno schermo. La nostra attenzione viene continuamente stimolata, impedendoci di sperimentare quello stato di quiete e di noia che precede gli slanci di creatività. Giochiamo, fin da piccoli, sempre di meno e a partire dalla scuola, passando per l’università fino al mondo del lavoro la creatività è ampiamente soffocata dalla corsa sfrenata e competitiva verso la produttività. Sembra insomma che stiamo diventando meno capaci di immaginare nel momento stesso in cui ne avremmo più bisogno.

Rob Hopkins, fondatore del movimento delle Transition Towns, a partire da questo tipo di riflessioni ha dedicato gli ultimi due anni a studiare i motivi per cui la nostra immaginazione si è inflaccidita, a ricercare storie provenienti da tutto il mondo di progetti che stanno mettendo l’immaginazione al centro delle proprie azioni e a individuare le buone pratiche utili a rivitalizzare questo muscolo assopito.

Le comunità – a suo avviso – hanno la capacità di cambiare radicalmente e nel giro di poco tempo: lo ha visto con i suoi stessi occhi nella sua cittadina, Totnes, nota per essere la prima città di transizione. Il termine “transizione” descrive l’atto intenzionale di passare da un uso intensivo di risorse, da pratiche imprenditoriali estrattive e da comunità frammentate ad una cultura più sana, un’economia locale e più resiliente e in generale a più connessione e meno solitudine, più biodiversità e più tempo, democrazia e bellezza.

“Se aspettiamo i governi sarà troppo tardi. Se agiamo come individui sarà troppo poco. Ma se agiamo come comunità potrebbe essere sufficiente e potremmo essere in tempo” – si erano detti gli abitanti di Totnes. Nella città di transizione le persone hanno dunque iniziato a porsi domande generative, a piantare alberi da frutto negli spazi pubblici e a coltivare cibo alle stazioni ferroviarie.

C’è stato un crowdfunding per acquistare un mulino – il primo mulino a Totnes dopo centinaia di anni – per macinare grani locali. Attualmente Transition Homes sta costruendo ventisette case usando materiali locali per le persone bisognose e Caring Town Totnes ha sviluppato una rete di organizzazioni di cura in modo che possano lavorare in modo più efficiente. Per supportare il consumo locale Transition Town Totnes ha creato il Totnes Pound, una valuta locale e complementare che ha ispirato molte altre monete locali in giro per il mondo, incluso il Sardex italiano. Una curiosità è che una delle banconote che potete trovare a Totnes è la banconota da 21 pound. A chi si è chiesto il perché di tale scelta, gli abitanti hanno risposto “Perché no?” Nel contempo la comunità ha discusso, cercando di immaginare insieme futuri auspicabili. Parte della bellezza della Transizione è che si tratta di un esperimento. Nessuno ha una ricetta su come attuarla, ma il senso di possibilità viene accuratamente coltivato perché “per realizzare un mondo migliore è necessario partire dall’immaginarlo, dal raccontare storie su come potrebbe essere”.

Il lavoro di Hopkins è recentemente culminato nel libro “From What Is to What If”. Ogni capitolo è guidato da una domanda generativa. Come sarebbe se prendessimo il gioco seriamente? Come sarebbe se considerassimo l’immaginazione vitale per la nostra salute? Come sarebbe se combattessimo per riappropriarci della nostra attenzione? Come sarebbe se la scuola nutrisse l’immaginazione dei giovani? E se ci ponessimo domande migliori?

Oltre al libro, per chi fosse curioso, Hopkins ha diligentemente pubblicato numerose storie e riflessioni nel suo blog dal titolo “Imagination Taking Power”– l’immaginazione al potere.

Oggi più che mai abbiamo bisogno di storie migliori. Abbiamo bisogno di sperimentare con il pensiero e con l’azione economie, culture e modi di stare insieme che diano spazio alla bellezza e al significato. Come nel caso di Totnes non c’è una ricetta, non c’è un modo giusto di farlo e ciò che ne potrebbe venire fuori non sarà certamente un’utopia. Resteranno i malumori, le giornate di pioggia e tutta la complessità dell’esistenza umana. Vale tuttavia la pena scoprire che colori, che forme, che suoni potrebbe avrebbe un rinascimento dell’immaginazione.

Cristina Diana Bargu