Parla Domenico Musella, ricercatore italiano in Cile, corrispondente dell’agenzia internazionale Pressenza nonché collaboratore di Tomas Hirsch, un parlamentare del Partido Humanista.

Lo scorso fine-settimana, la seconda città del Cile, Valparaìso, è stata attraversata da scontri tra forze dell’ordine e manifestanti che protestavano contro uno degli appuntamenti culturale più noti del Paese: il Festival internazionale della canzone di Viña del Mar. La rassegna è una vetrina per il Cile nel mondo ma secondo alcuni cittadini e attivisti non andava organizzata in un periodo di crisi sociale come quella che sta attraversando il paese. Gli scontri di questi giorni hanno comunque riacceso i riflettori sulla protesta cilena, che va avanti da ottobre.

Secondo Domenico Musella, ricercatore italiano in Cile, corrispondente dell’agenzia internazionale Pressenza nonché collaboratore di Tomas Hirsch, un parlamentare del Partido Humanista, la ragione di questo malcontento va cercata nella storia recente del Paese latinoamericano: “In Cile fin dagli anni ’70 si è applicato alla lettera il modello neo-liberista” dice Musella in un’intervista con l’agenzia Dire. “A questo si è aggiunta una Costituzione che è la stessa degli anni della dittatura e il risultato è che si è arrivati a una situazione tragica”.

Quando parla degli effetti di una politica neo-liberista, il ricercatore cita gli effetti sulla vita di tutti i giorni del popolo cileno, in primo luogo sulle disuguaglianze: “Su 18 milioni di abitanti, circa 1500 detengono quasi tutta la ricchezza del Paese, mentre i salari e le pensioni sono spesso sotto la soglia di povertà, che è di 400mila pesos, circa 450 euro”. Questa dinamica, secondo Musella, ha portato una serie di categorie sociali a vivere in condizioni molto precarie e, di conseguenza, anche sotto i colpi le privatizzazioni dell’istruzione, della sanità e del sistema previdenziale, allo “scoppio di una rabbia accumulata da anni”. Un sentimento sfociato nelle proteste di strada, dove si è costituito un fronte che mette insieme esperienze diverse.

“Ci sono – dice Musella – i movimenti dei popoli originari, come i Mapuche, i gruppi femministi e quelli ambientalisti, che si battono contro il ‘saccheggio ambientale’, come viene chiamato qui, e contro la privatizzazione dell’acqua”. Secondo Musella, il movimento è mosso da un “malcontento trasversale”, ma ancora non è riuscito a trovare “una canalizzazione politica precisa”. Ci sono poi le denunce di violenze da parte delle forze dell’ordine, al centro del dibattito fin dall’inizio delle proteste: “Stiamo parlando di 31 persone che hanno perso la vita, oltre a 4mila feriti” dice Musella. “Nessun dirigente dei ‘carabineros’ cileno è però andato incontro a conseguenze degne di nota, nonostante associazioni internazionali, come Amnesty International, abbiano parlato di violazioni sistematiche dei diritti umani”. Questo ha avuto l’effetto, secondo il ricercatore, di incrementare anche “un senso di impunità e ingiustizia” tra i cileni: “Le violazioni degli alti gradi restano impunite, mentre nel Paese basta un debito non pagato per finire in prigione”.

Un passaggio di rilievo potrebbe essere ora il referendum per la modifica della Costituzione, un documento che risale al 1980, ai tempi del regime di Augusto Pinochet. “Le consultazioni potrebbero anche non svolgersi – avverte Musella – perché la destra va dicendo da tempo che non ci sono le condizioni di sicurezza per votare”. Secondo Musella, in tanti si augurano che prevalgano i “sì”, magari con il 70 o l’80% delle preferenze. “Si potrebbe portare a un altro livello la mobilitazione e favorire la nascita di un’Assemblea Costituente indipendente in grado di auto regolarsi” dice Musella. Un’occasione, sembra di capire: “Il Cile ha l’opportunità di recidere il cordone ombelicale con la dittatura”.

Qui di seguito la video intervista a Domenico Musella realizzata dall’agenzia Dire

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