Ci sono voluti quattro mesi, le trattative sono state lunghe e faticose, in alcuni momenti perfino sul punto della rottura, e alcune questioni fondamentali, come il “format” del dialogo serbo-kosovaro e la “opzione” sul prossimo presidente della “repubblica”, restano ancora in sospeso. Ma, alla fine, la maggioranza del parlamento kosovaro è riuscita ad esprimere un governo e il partito di maggioranza relativa, risultato vincitore alle ultime elezioni politiche, a portare il proprio leader a capo dell’esecutivo.

Nasce così, tra il 2 e il 4 febbraio scorsi, tra la chiusura dell’accordo e il voto di fiducia, il nuovo esecutivo del Kosovo, il primo governo Kurti, composto essenzialmente dalle due forze politiche di maggioranza, Vetëvendosje (Autodeterminazione) e la LDK (Lega Democratica del Kosovo) e forte del sostegno di una maggioranza di 66 deputati su 120, tanti ne conta, in totale, il parlamento monocamerale kosovaro. Un esecutivo “nuovo”, sotto diversi punti di vista, che si caratterizza almeno per tre elementi decisamente significativi. Il primo fa luce nella composizione stessa dell’esecutivo: 15 ministri, 6 ministri a testa tra le due forze di maggioranza, il capo del governo espresso dalla leadership del partito di maggioranza relativa, e i restanti 3 dicasteri affidati alle minoranze nazionali, tra le quali, in particolare, la più consistente di queste, la minoranza serba, che esprime, con la sua rappresentanza politica, la SL (Srpska Lista), forte del 95% del consenso tra i Serbi del Kosovo, due ministeri, quello alle Comunità e quello allo Sviluppo Locale.

Ovviamente, la composizione del governo è uno dei risultati della mediazione raggiunta: la ripartizione a metà dei dicasteri tra la LDK e Vetëvendosje, la designazione alla premiership di Albin Kurti, compensata dalla presidenza del parlamento alla promettente leader della LDK, Vjosa Osmani, la presenza inderogabile della Srpska Lista all’interno dell’esecutivo, nonostante alcune ventilate minacce della vigilia, che avevano paventato l’ipotesi di una sua esclusione dal governo, al netto del fatto che la SL stessa, in parlamento, si è astenuta nel voto di fiducia. Il secondo elemento è che, appunto, non poche questioni restano “in sospeso”: l’accordo, al netto del segnale positivo lanciato ai cittadini e alle cittadine del Kosovo, oltre che alla comunità internazionale, in merito alla formazione di un esecutivo, dopo mesi e mesi di trattative, finalmente in condizione di affrontare i gravissimi problemi della regione (il tasso di occupazione è appena superiore al 30%, la disoccupazione ufficialmente supera il 25%, il salario medio continua a essere intorno ai 350 euro/mese e la povertà ampiamente diffusa), indica e ufficializza un vero e proprio «dualismo al potere», tra una formazione nazionalista radicale, che ha fatto della lotta alla corruzione e della giustizia le sue bandiere, come Vetëvendosje, e uno dei partiti storici della regione, quel LDK che, insieme al PDK di Hashim Thaçi, ha caratterizzato la scena politica del lungo dopo-guerra kosovaro. A proposito di Thaçi, intorno al suo nome resta uno degli elementi di “sospensione” dell’accordo: è attualmente il presidente della “repubblica”, ma nel 2021 il suo mandato scade, si terranno nuove elezioni presidenziali e la sfida tra le due forze di maggioranza sarà inevitabilmente destinata a ripetersi. Sullo sfondo, stavolta, di una esperienza di governo alla quale si chiederanno numeri e risultati: e questo è il terzo e, senza dubbio, il più significativo, degli elementi in gioco.

Il governo Kurti nasce su alcune impostazioni programmatiche, al tempo stesso, chiare e innovative, ma non per questo tali da fugare incertezze e perplessità: dalla parte dei cittadini e non dalle parte delle élite, come del resto si era sentito ripetere anche in campagna elettorale, in linea con una delle radici stesse, radicale e demagogica allo stesso tempo, del movimento politico di cui incarna la leadership, ma anche con una più forte propensione a contrastare le disparità sociali, a lottare contro la corruzione e il malaffare, a rafforzare uno stato sociale (soprattutto nella scuola e nella sanità) letteralmente allo sbando e a mettere fine alle privatizzazioni più selvagge (ad esempio all’insegna di uno dei passaggi chiave del suo discorso, che non ci siano più, in Kosovo, «singoli o imprese più potenti dello Stato»).

E tuttavia elementi di inquietudine non mancano: ha promesso di introdurre una leva militare obbligatoria della durata di tre mesi, accelerando dunque sulla “militarizzazione” della regione, dopo la già più che controversa approvazione (14 dicembre 2018) della legge che trasforma la KSF (Forze di Sicurezza del Kosovo) in una vera e propria Forza Armata del Kosovo; ha rivendicato il principio della “completa reciprocità” nel dialogo con la Serbia in tutti i settori (commercio, economia, politica), dimenticando di ricordare che i già approvati Accordi di Bruxelles (2013) sono ancora, fin troppo, lettera morta.

Il format del dialogo tra Belgrado e Prishtina cambierà, ma non è ancora chiaro come. Intanto, al novembre 2019, si è allungata a quindici la lista dei Paesi che hanno ritirato il riconoscimento della “repubblica” del Kosovo, la cui posizione internazionale, com’è noto, continua a essere disciplinata dalla Risoluzione 1244 del 1999 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e dal parere della CIG del 22 luglio 2010.