In un paio di giorni, più di cinquanta morti. Tra inondazioni, frane e crolli, la periferia di Belo Horizonte e la sua provincia sono in ginocchio. L’acqua in collera corre per strade e avenidas a riprendersi quello che era suo e che l’asfalto le ha tolto senza chiederle il permesso. Le favelas arrampicate sulla scarpata scivolano a valle sotto la terra rossa, umida, molle, liquefatto torrente, e i più poveri perdono finalmente tutto, anche la vita.

È come se fango e acqua sapessero che il governo federale ha sottratto i due terzi del montante a disposizione per combattere e prevenire questi eventi, li ha sottratti per pagare il debito pubblico contratto con i soliti banchieri, li ha sottratti per corrompere i parlamentari affinché votassero le sue riforme nefaste. Come quella delle pensioni, che ci farà lavorare dieci anni in più. O quella del lavoro, che ha soppresso lo stesso  ministero del lavoro e il sistema giuridico che tutelava i lavoratori, flessibilizzando i contratti lasciati in balia della libera trattativa tra il singolo lavoratore e l’impresa, una via a senso unico senza scampo. E nella città inondata, con la corrente che porta via tutto, un uomo affronta la furia degli elementi e si azzarda tra i flutti. Sulla schiena lo zainetto e il logotipo di una impresa di consegne a domicilio: dal salotto di casa tua chiami con l’app e in un tá tá e bonasera arriva quello che hai ordinato. Anche a costo di affrontare il dies irae, la vendetta degli elementi, senza alcun diritto, senza alcuna tutela assicurativa, senza vincolo impiegatizio, un disperato disposto ad arrivare fino a te c’è sempre.

E si trova pure chi considera lo sfortunato tra le acque una specie di eroe del lavoro, devoto alla causa della confindustria nazionale fai-da-te, disposto a tutto pur di realizzare il suo sogno di, magari un giorno chissà, fondare la sua micro impresa e diventare finalmente, anche lui, un padrone, piccolo piccolo, ma pur sempre padrone. In una inversione di valori, la cui crudeltà non è più neanche percepita come tale, la sua dedicazione viene esaltata e definita come abnegazione assoluta di chi non si arrende neanche davanti al cataclisma, anzi, ne affronta le fauci disposto a rischiare la sua vita miserabile in favore del miraggio di una vita migliore. La sua reale condizione di schiavo di un sistema cannibale, disposto a sacrificare i suoi figli in cambio di un profitto trituratore, viene ignorata, dimenticata, negata, e, è il caso di dirlo, annegata in una mare di putrido cinismo.

E se a Belo Horizonte si muore di pioggia, a São Paulo ci pensa la miseria. Il costo sociale e umano della sovversione dell’ordine democratico che quattro anni fa diede inizio al processo di impeachment culminato nell’elezione di Bolsonaro, ha provocato l’aumento del 60% delle persone che vivono per strada. Non sono le favelas il simbolo della miseria brasiliana, non sono le baraccopoli senza fine, ma coloro cosí poveri da non potersi permettere neanche un rifugio di legno o di cartone. Secondo i dati divulgati dal Comune, sono venticinquemila le persone che vivono in strada, venticinquemila persone nella città più grande e più ricca dell’emisfero sud. Anche no. Perché le organizzazioni della società civile dicono che non sono venticinque, ma trentadue. Trentaduemila. E io ci credo; trentaduemila persone che se prima le incontravi negli angoli più bui, ora ci inciampi addosso ad ogni passo, non più sotto, ma sopra i ponti, davanti alle stazioni della metropolitana, nelle aiuole della piazza, sui seggiolini della pensilina degli autobus, a mangiare tra i bidoni, annidati per dormire, dove possono. In una città in cui, solamente in centro, si contano 708 edifici abbandonati. Tanta gente senza casa e tante case senza gente.

In quattro anni il prezzo della destituzione di Dilma Rousseff, e delle riforme autoritarie, lo si misura sulla pelle di un’umanità derelitta, abbandonata da ogni istituzione pubblica. Fino a qualche anno fa i banchi della cattedrale si riempivano dei poveri che, stanchi di girovagare, trovavano santuario nella sua penombra. Oggi una guardia non lo permette più. Di notte, la fila per lo zuppone, distribuito da volontari evangelici che in cambio della pappatoria pretendono dai poveracci che si sottopongano a un esorcismo comunitario, la fila arriva fino in fondo alla piazza. L’esorcismo finale è per allontanare il demonio, unico responsabile della condizione di ciascuno dei presenti, l’unico che “non permette allo spirito di iniziativa imprenditoriale (sí, dicono proprio così: spirito di iniziativa imprenditoriale) di poter esercitare tutto la sua autorità divina”. Quando non si muore di pioggia, di lavoro o di miseria, ti fanno credere che l’unico responsabile della tua disgrazia è il demonio al quale hai permesso di possederti l’anima.

Davanti ai finanzieri di Washington, Bolsonaro disse letteralmente: “prima di costruire dobbiamo distruggere, dobbiamo abbattere e disfarci di molte cose”. Lui, le sue milizie, le chiese evangeliche, i grandi nomi della finanza, gli speculatori in borsa, i mercanti di armi, i latifondisti di sempre, riuniti in questo ibrido mostruoso che è il suo governo nazi-gospel-narco-liberista, a distruggere tutto ci stanno riuscendo davvero.