Come da schema classico della finanza pubblica in epoca di deregulation mercatista  e neoliberismo imperante, gli amministratori pubblici di qualsiasi ordine istituzionale, piuttosto che salvaguardare il patrimonio comune nell’interesse intergenerazionale, guardano ai beni della collettività come se fossero cespiti strumentali commerciali a supporto delle loro mandato gestionale, depauperando le risorse comuni materiali e trasfigurando quelle immateriali storico-culturali, affidando il tutto alla mano spettrale del sistema privatistico in funzione di un’unica ragione: il profitto e l’accumulazione a danno della comunità

Il 15 gennaio sulla Home del Comune di Palermo leggiamo: “Si rende pubblico che è stata inoltrata manifestazione d’interesse con offerta economica per l’importo di € 1.196.000,00 per l’acquisto dell’intero edificio denominato Palazzo Sammartino sito in Palermo Via Lungarini 4.

Quanto sopra a seguito di trattativa privata senza gara ufficiosa espletata dal Settore Risorse Immobiliari ai sensi dell’art.23 del regolamento per la gestione e alienazione dei beni immobili di proprietà comunale (asta pubblica andata deserta per due volte e trattativa privata con gara ufficiosa andata deserta)”.

Assessore, D’Agostino, e sindaco, Leoluca Orlando, hanno commentato senza troppe parole. Il primo ha definito la vendita senza troppi fronzoli un“ottimo”risultato per far cassa; il sindaco, con maggiore sforzo retorico, ha sentenziato che è “la conferma di un’attrattiva in termini imprenditoriali e commerciali del nostro centro storico“. Due inoppugnabili verità, che calano il sipario sulla scena.

Cosa ne sarà non è dato sapere al momento. Si legge che la futura destinazione d’uso sarà “compatibile con il carattere storico artistico del monumento e tale da non arrecare danno alla sua conservazione”, frasi assai vaghe che vengono riformulate con un ancor più vago proposito di “privilegiare” la destinazione residenziale o il terziario direzionale e culturale. Insomma, non ci faranno una fabbrica. Chi? Lo sapremo presto, certamente non un ente pubblico. Per questi immobili, il privato che compra, ristruttura e mette a profitto. Tutto lecito, come in ogni speculazione edilizia che punti sul differente valore di ciò che si acquisisce e quanto sarà recuperato in un secondo tempo.

In questi anni questa legittima operazione economica finanziaria si è ammantata di un velo, la rappresentanza di un interesse generale, e cioè la restituzione di un pezzo del patrimonio storico alla cittadinanza. Un particolare si presenta come universale, e come tale si impone, che è un buon modo per illustrare come si esercita una egemonia ideologica.

Ma seguiamo le vicende del palazzo attraverso le cronache cittadine.

Partiamo dal novembre 1997 quando su un cantiere aperto nel palazzo Sammartino campeggia una scritta su un tabellone metallico: «Recupero di palazzo Sammartino- Rammondetta. Ente finanziatore comune di Palermo. Progettisti: Nicola Mineo, Rita Franzitta, Cesare Mazzucca. Impresa esecutrice: Consortile Restauri Italia dei Gammino-Valverde (Ct). Importo contrattuale dei lavori: 4 miliardi 458 milioni. Consegna lavori 4 novembre 1997. Ultimazione 3 novembre 1999». Scrivono i progettisti: «Il restauro si articola in diverse fasi, consistenti: nell’eliminazione di tutte le superfetazioni, determinate da un uso improprio del palazzo, che hanno alterato la sua originaria configurazione; nella ricostituzione delle parti mancanti a causa dei crolli, attuata sulla base degli elementi superstiti e dei riscontri documentari».

Questa scritta rimase lì almeno fino al 2008.

Nel novembre del 2013, Palermo si candida a capitale europea della cultura per il 2019, presentando un piano complessivo di interventi. In una nota diramata dal Comune si leggeva: “In particolare è stato deciso di cancellare Palazzo Sammartino, in via Lungarini, dal piano delle alienazioni degli immobili comunali, per destinarlo invece a Museo, inserendo quindi i relativi interventi di recupero nel Piano triennale delle Opere Pubbliche. L’Amministrazione si è in tal senso impegnata ad avviare una ricognizione per l’affidamento dell’incarico di progettazione dell’intervento”.

Qualcosa deve essere andato storto e prende corpo un’altra prospettiva, celermente sposata da Repubblica, Giornale di Sicilia e i network di informazione locale. Dal 2018 un coro unanime ci ripete che il Comune, che non ha fondi per la ristrutturazione del bene, cerca di venderlo. Sta di fatto però che nessuno è disposto a comprarlo. Sul bene cala una cappa fumogena e si sparano cifre immaginifiche come 6 milioni di euro per ristrutturarlo. Questa somma – che, a lume di naso non esperto, non pare così esorbitante – viene presentata come impossibile, e così il valore presunto cade in picchiata. È allora che si fanno le gare. Il prezzo di partenza scende ancora da un milione e 600mila euro dell’asta di giugno 2018, arrivando ad un milione e 440mila euro. Considerato che fino a pochi anni prima il prezzo partiva da due milioni, il valore dell’immobile si è ridotto di circa un terzo.

A maggio 2019, in piena apoteosi di Palermo capitale della cultura, un’altra asta va incredibilmente deserta. Il palazzo in quel momento costerebbe un milione e 296mila euro, più almeno altri cinque per ristrutturarlo e il venditore lo presenta come un rudere. Così da un milione e 600mila euro della prima asta, si è passati a un milione e 440mila euro, per arrivare al prezzo attuale, gennaio 2020, ossia meno di 1.200.000 euro. Un saldo di fine stagione. E sui giornali leggiamo che coltiviamo la speranza di trovare un benevolo investitore o anche una cordata che voglia generosamente acquistarlo e ristrutturarlo, per “restituirlo alla città”. Liberi di ridere o piangere. O di stare nel coro.  Perché a ripercorrere le tappe di questa transazione economica, se volessimo giudicare come sono stati rappresentati gli interessi dei due attori protagonisti, il Comune venditore e il privato acquirente, una conclusione pare obbligata.

In sintesi estrema: abbiamo visto abbattere il valore dell’immobile con un inedito “chi disprezza vende”. Lo abbiamo ritagliato dal contesto che si rivalutava deprezzandolo progressivamente in controtendenza. Poi lo abbiamo svenduto, proprio in una fase di rivalutazione del mercato immobiliare del centro storico.

Oltre a fare un po’ di cassa, al Comune non resta assolutamente nulla che possa intendersi come un ritorno alla collettività di un bene che le apparteneva. Mentre a pochi, e con poco, qualcosa in tasca e nel centro storico resterà di certo: 3.100 metri quadri e trenta immobili, di pregio e rilevanza storica e artistica da ristrutturare e rivendere.