Era il 12 gennaio 2010 quando un terribile terremoto di magnitudo 7.0 colpì gravemente la Repubblica di Haiti, provocando oltre 220mila morti, 1.5 milioni di sfollati e il collasso di oltre 300mila edifici. Da allora sono passati 10 anni ma la situazione è ancora molto critica. Nel tempo si sono susseguiti altri eventi naturali catastrofici: ben 3 uragani si sono abbattuti sullo Stato caraibico (Sandy 2012, Matthew 2016, Irma 2017) e un altro violento terremoto (magnitudo 5.9) si è verificato nella zona nord del Paese nel 2018. Haiti è ancora molto lontana dall’uscire dalla crisi ma il Paese sta diventando sempre più invisibile agli occhi della comunità internazionale. “La situazione è inaccettabile”, dichiara Fiammetta Cappellini, responsabile dei progetti AVSI in Haiti. “È necessario intervenire al più presto, il Paese è al limite”.

Sono passati 10 anni dal terribile terremoto del 2010. Com’è la situazione oggi ad Haiti?

Molto grave, c’è ancora un urgente bisogno di aiuto umanitario. Alla crisi legata al terremoto purtroppo si è aggiunta anche la crisi politica, che è sfociata in un clima di fortissima tensione sociale. Il Paese è sempre stato molto fragile da questo punto di vista, anche prima del terremoto (ricordiamo il colpo di Stato nel 2004); l’instabilità politica da sempre ne ha ostacolato la crescita e creato forti pressioni sulla popolazione, ma nel luglio del 2018 la situazione è precipitata spaventosamente.

Cos’è accaduto allora?

È emersa la notizia dello scandalo legato al programma di sviluppo Petrocaribe. Si tratta di un accordo petrolifero nato nel 2005 che prevedeva la vendita di petrolio da parte del Venezuela agli Stati membri dei Caraibi a prezzi preferenziali. Il progetto era stato fondato dall’allora presidente del Venezuela Hugo Chávez e serviva per aiutare i vari governi che aderivano all’iniziativa. A luglio è emersa l’accusa di corruzione di diversi politici, tra cui l’attuale presidente Jovenel Moïse e i due ex-premier. In totale, si parla di 3.8 miliardi di dollari sottratti al programma di sviluppo.

Quindi ci sono state delle proteste?

Da allora ci sono state molte manifestazioni di protesta che si sono risolte in scontri violenti con la polizia. Il 7 febbraio dello scorso anno c’è stata la manifestazione più grande, con almeno 7 morti e molti feriti. Il Paese è rimasto bloccato per una decina di giorni, barricate con gente armata ogni cento metri e le fasce più povere della popolazione rimaste completamente senza cibo. La protesta è degenerata in una violenza generalizzata che non sapeva più indicare proposte alternative o soluzioni valide, e, come spesso accade in questi casi, si è risolta alla fine in episodi di delinquenza.

Voi della Fondazioni AVSI cosa potete fare in questa situazione?

Noi ci occupiamo soprattutto di insicurezza alimentare e diritti umani. Nello specifico, per quanto riguarda quest’ultimi, ci occupiamo prevalentemente delle questioni legate alla violenza di genere (cioè sulle donne) e a quella che viene esercitata nei confronti delle fasce più vulnerabili della popolazione, come ad esempio i bambini. Siamo attivi sul territorio da oltre 20 anni e abbiamo degli ottimi rapporti con la comunità locale, per questo abbiamo potuto continuare.

In che senso?

Molte organizzazioni hanno dovuto sospendere la loro attività, i rischi sono molto alti. Prima di tutto dobbiamo valutare l’incolumità del nostro staff e la situazione di sicurezza non è affatto buona. Per un periodo ci sono state barricate ovunque, barricate con persone armate che bloccavano la strada per avere soldi o semplicemente per esercitare aggressività. Andare al lavoro era diventato molto rischioso. È stato necessario valutare caso per caso, progetto per progetto, per decidere se fosse possibile proseguire o meno. Avendo la nostra ong una vocazione a carattere comunitario, cioè legato allo sviluppo della comunità sul lungo termine, abbiamo un rapporto diverso con la popolazione rispetto a chi interviene nelle situazioni di emergenza: per questo siamo riusciti a proseguire.

E per quanto riguarda l’insicurezza alimentare?

Il 35% della popolazione – significa 3 milioni e mezzo di persone – vive in una situazione molto critica, tale da richiedere immediatamente interventi d’urgenza. Manca letteralmente il cibo. In questo momento non si tratta tanto di povertà, quanto del fatto che il cibo non c’è. Per questo è necessario che la comunità internazionale intervenga con urgenza. Secondo l’IPC, l’indice che misura il livello di sicurezza alimentare valutandola in una scala che va da 1 a 5, tutto il Paese vive tra il 3 e il 4 – 5 indica la massima gravità.

Mi spieghi meglio come funziona questo indice.

IPC sta per “Integrated food security Phase Classification” e definisce le diverse fasi dell’insicurezza alimentare. In tutto le fasi sono 5; più il numero è alto, più la situazione è grave. Il numero 3 sta per “acuta crisi alimentare e dei mezzi di sostentamento”, il 4 per “emergenza umanitaria”, il 5 per “carestia/catastrofe umanitaria”. I numeri 1 e 2 invece indicano che la situazione è buona o moderatamente grave. Secondo l’ultima analisi disponibile, quella del 2019, tutto il Paese si trova nella fase 3, con una regione a nord che si trova nella 4.

Sono queste dunque le priorità fondamentali al momento, insicurezza alimentare e violenza generale?

No, queste sono le cose su cui noi ci stiamo concentrando maggiormente in questo periodo; ci sono poi altre questioni altrettanto urgenti. Per quanto riguarda il settore educativo la situazione è molto grave. Le scuole sono state chiuse per 4 mesi, da settembre a dicembre, a causa dell’insicurezza e dei disordini vari: andare a scuola è diventato pericoloso. Anche l’impoverimento generale delle famiglie ha influenzato la loro chiusura. Il 7 gennaio i vari istituti hanno timidamente ricominciato ad aprire. Più in generale, secondo le stime attuali solo il 30% dei bambini va a scuola, un dato tutt’altro che incoraggiante, anche se la priorità più grande rimane di natura sanitaria.

Negli anni immediatamente successivi al terremoto si era parlato molto di colera…

9mila vittime, una delle epidemie di colera più letali mai registrate nella storia. Non si è mai risolta veramente del tutto. Ora la situazione è sotto controllo, ma continuano ad esserci casi sporadici che compaiono con una certa regolarità. A parte questa epidemia, il sistema sanitario è totalmente inadeguato. La sanità gratuita non esiste, la popolazione non ha accesso alle cure, neanche negli ospedali pubblici. Dev’essere tutto pagato dai pazienti, che spesso sono molto poveri: l’accesso alla salute, praticamente, quasi non esiste.

A parte per chi può permetterselo…

Anche in quel caso, il sistema rimane inefficiente. Gli ospedali non sono forniti a sufficienza, fanno fatica a procurarsi anche i beni di prima necessità, come acqua potabile e cibo. Nei mesi di settembre e ottobre, che sono stati i più duri dell’ultimo periodo, era quasi impossibile trovare un solo ospedale che avesse delle bombole di ossigeno.

Che fare dunque in questa situazione?

Bisogna intervenire subito, ma per farlo è necessario sensibilizzare nuovamente l’opinione pubblica. La comunità internazionale non deve assuefarsi al fatto che ad Haiti le cose semplicemente vadano così. Al terremoto ha fatto seguito una lunga crisi politica che ha acuito notevolmente le difficoltà nella ricostruzione del Paese, senza contare anche i danni provocati dall’uragano Matthew nel 2016. La situazione è davvero al limite, c’è bisogno di aiuto.

Elvis Zoppolato