Il mio caro amico Angelo Baracca ha scritto un ponderoso articolo su Contropiano http://contropiano.org/news/politica-news/2019/12/02/una-critica-alla-nonviolenza-da-una-persona-che-rifugge-la-violenza-0121432 sul tema della violenza e della nonviolenza. Ovviamente si tratta di un tema grosso come una casa e non è nelle intenzioni di questo articolo rispondergli puntualmente ma piuttosto, come mi pare chieda anche lui, dare un contributo a un dibattito che mi pare in questo momento altamente necessario. Magari esprimendo idee semplici ed essenziali che possano chiarire il filo del discorso.

Che cos’è la violenza?

Per dibattere in modo intelligente e costruttivo è necessario prima definire di cosa stiamo parlando.

La prima confusione che nasce abitualmente è confondere la violenza con l’aggressività o con la forza vitale tipica di tutte le specie viventi (piante incluse). La violenza non fa parte del mondo animale e vegetale; le piante, gli animali, gli agenti atmosferici hanno forza, gli animali hanno aggressività in genere istintiva ma la violenza, in senso rigoroso, è una caratteristica tipicamente umana.

La seconda confusione è quella di pensare che la violenza sia fisica; c’è violenza psicologica, economica, discriminatoria, religiosa, psicologica e, spesso, queste forme “invisibili” di violenza (secondo una definizione di Pat Patfoort) sono più pericolose della violenza fisica più evidente.

Spazzato il campo provo una definizione della violenza in generale che sia valida per tutti i tipi di violenza: “la violenza è l’appropriazione, limitazione o negazione dell’intenzionalità altrui”. Se la parola “intenzionalità” dovesse suonare complicata a qualcuno la può sostituire con la parola “libertà”, anche a rischio di alcuni difetti semantici.

Se uccido una persona le nego il futuro e quindi tutte le sue intenzioni future; se violento una donna nego la sua intenzione e il suo diritto a disporre del proprio corpo; se sfrutto dei lavoratori limito il loro diritto a una vita degna, se discrimino una persona per le sue caratteristiche morfologiche o per le sue abitudini sessuali ne limito le sue possibilità, le sue intenzioni. E gli esempi potrebbero proseguire a lungo.

Ci sono situazioni in cui la violenza può essere lecita: per es. il caso di una persona che nuoccia agli altri: a tale persona è lecito limitare la libertà con misure appropriate al fatto che non faccia male (violenza) a se stesso e ad altri. Ci sono apparati umani riconosciuti che hanno diritto all’uso della violenza ed altri che ne hanno addirittura il monopolio. Questi diritti e questi monopolii appartengono a una organizzazione sociale determinata in un momento storico determinato e possono essere, provvisoriamente, migliori di quelli di un periodo precedente. Potremmo per esempio dire che la violenza rivoluzionaria della Rivoluzione Francese fosse migliore di quella della Monarchia Assoluta che ha abbattuto; che l’esercito moderno sia meno violento di quello dell’impero romano. Possiamo stabilire una direzione della Storia che va dalla violenza alla nonviolenza, come tendenza perfettibile.

Che cos’è la nonviolenza?

La nonviolenza è, innanzi tutto, un concetto giovane, data del secolo passato anche se può trovare i suoi antecedenti in concetti molto antichi.

La nonviolenza ha avuto molti maestri, talmente tanti negli ultimi anni che quasi non ne citerei nessuno, per non far torto a quelli che dimenticherei.

Io direi, per cominciare, che la nonviolenza è il rifiuto della violenza. Che è un atteggiamento umano di curiosità e superamento dei limiti attuali della conoscenza, un amore e rispetto per tutti gli esseri umani e una valorizzazione profonda dei medesimi, un rifiuto netto della discriminazione e una grande valorizzazione della diversità. Al tempo stesso la nonviolenza è anche una metodologia d’azione che usa un’infinità di tattiche per raggiungere obiettivi concreti legati all’atteggiamento che ho citato prima. Per essere precisi quest’atteggiamento è ciò che Silo ha definito atteggiamento umanista.

En passant sarà il caso di ricordare, per non dare nulla per scontato, che la nonviolenza non è sinonimo di pacifismo dato che ci sono pacifisti che non si riconoscono affatto nella nonviolenza e che, comunque, la nonviolenza è qualcosa di decisamente più complesso che il semplice rifiuto delle guerre.

Cosa comporta questo?

Come ricordano molti nonviolenti “la nonviolenza è in cammino”; personalmente quando mi definisco “nonviolento” sto semplicemente dicendo che sono una persona che passa il suo tempo a riconoscere la violenza che è in me (come membro di una società eminentemente violenta), a cercare di accettarla e quindi di superarla, in me e, possibilmente, in altri. Credo che questo si possa fare costruendo ambiti sociali in cui risulti più facile alle persone scegliere soluzioni nonviolente ed avviare questo cammino: riconoscere, accettare, trasformare.

Dirò anche che riconosco la giusta lotta per superare la violenza in tutte le sue forme nella società umana ma non per questo mi metterò sopra a chi pensa di risolvere i problemi in altro modo. Dirò che questa lotta mi dà senso ma riconoscerò che non mi rende migliore o peggiore di altri.

L’efficacia della nonviolenza

La violenza è indubbiamente efficace: minaccio un bambino di punizione ed egli smette di comportarsi male, puntare una pistola è un buon metodo per far fare agli altri quel che si vuole, anche il ricatto funziona abbastanza bene; la violenza non si preoccupa granché delle conseguenze immediate e men che mai delle conseguenze ultime della sua azione; la nonviolenza sì, cerca di preoccuparsi e di vedere le catene di violenza che percorrono la società. Un’azione nonviolenta cerca la coerenza tra pensiero, sentimento e azione e tale coerenza ha un senso sociale perché aspira a trattare gli altri come si vorrebbe essere trattati (il vecchio santo principio della Regola d’Oro, grande precursore dell’idea di nonviolenza).

Di conseguenza l’azione nonviolenta non può essere valutata in termini di efficacia immediata ma di efficacia all’interno di un processo temporale più o meno lungo. In tal senso possiamo pensare la storia umana come una lotta di liberazione progressiva dalla violenza. Le monarchie assolute erano più violente di quelle costituzionali, ed esse più della democrazia formale che è più violenta della democrazia diretta e così via, per esempio. La storia umana avanza verso la nonviolenza, in modo non lineare, con i suoi alti e bassi, ma in direzione crescente nel suo complesso.

La storia è stata interpretata in generale dal punto di vista della violenza; guardarla dal punto di vista della nonviolenza cambia radicalmente la prospettiva e la lettura della storia stessa. Per esempio la nonviolenza si occupa delle culture e dei popoli piuttosto che dei personaggi che possono essere, al massimo, una buona allegoria del proprio popolo.

Alcune questioni controverse

Abbiamo da dirimere e discutere i concetti “violenza necessaria” e di “diritto di replica”.

Si dice ad esempio che la Resistenza fu una lotta violenta perché i partigiani imbracciarono le armi contro i nazisti che occupavano l’Italia e che se non l’avessero fatto saremmo ancora sotto il regime fascista. Questa visione dà poco peso sia all’azione popolare che determinò la sconfitta in guerra e la caduta del fascismo e ancor meno peso alla componente nonviolenta che era già presente in quella lotta; però anche senza questo non tiene conto del diritto di replica, cioè della possibilità di una risposta proporzionale alla violenza. Se una persona mi punta una pistola addosso io ho diritto di tirargli un calcio per evitare che mi uccida e così facendo sto facendo un’azione nonviolenta; se dopo prendo la sua pistola e lo uccido rientro nel circolo della violenza. Questo concetto, complesso e delicato nella sua attuazione, è il concetto nonviolento del diritto di replica.

Il tema della “violenza necessaria” è invece la teoria, diffusa in vari ambienti “rivoluzionari” che pur non aspirando alla guerra o alla violenza ritengono necessario l’uso della forza in certe circostanze: questo concetto è stato spesso usato come giustificazione di azioni rivoluzionarie la cui direzione a lungo termine non è andata nel senso della nonviolenza. Anche qui un attento studio delle situazioni storiche può far trarre giudizi diversi sui fatti; ma farlo, come dicevo prima, in una prospettiva storica che analizzi tendenze mi pare la soluzione più utile e scientificamente interessante.

In conclusione

Ho buttato giù alcune idee che spero siano state utili a chiarire concetti e a creare condizioni previe al dialogo senza le quali i dibattiti e gli scambi d’opinione prendono un tono da contrapposizione sterile. Vorrei terminare sottolineando che questo dibattito non può che essere ideologico, dato che sono le idee che ci permettono di inquadrare ed affrontare i problemi; e questo anche se la più scadente delle ideologie, il pragmatismo, si ostina a recitare il suo mantra della “fine delle ideologie”, buona scusa per far passare qualsiasi assurdità come frutto delle “cose stesse”.

E che questo dibattito possa chiarire idee e stimolare azioni verso un vero cambiamento nonviolento che non potrà essere che il cambiamento radicale di mentalità e di strutture sociali di cui abbiamo urgente bisogno.