Una delle tematiche discusse alla 25esima Conferenza sul clima, realizzata a Madrid, è indicata con una sigla. Si scrive NDC ed è un cardine dell’Accordo di Parigi siglato nel 2015. L’acronimo sta per Nationally Determined Contribution e si riferisce agli impegni che ogni paese deve assumersi per ridurre i gas serra. Impegni che vanno ridefiniti ogni cinque anni, per cui il 2020 rappresenta un anno cruciale.

Da una consultazione condotta dalle Nazioni Unite e pubblicata nel rapporto “The heat is on”, emerge un quadro caratterizzato da chiaro scuri. Premesso che i paesi aderenti all’accordo di Parigi sono 197, il rapporto ci informa che 75 stanno già lavorando per rispettare la scadenza e presentarsi all’appuntamento del 2020 con impegni più stringenti sia in termini di abbattimento dei gas serra che di iniziative utili a fronteggiare gli effetti dei cambiamenti climatici. Complessivamente i paesi appartenenti a questo gruppo contribuiscono al 37% di tutti i gas serra e sono prevalentemente in via di sviluppo. Altre 37 nazioni, responsabili di un ulteriore 16% di gas serra, hanno dichiarato di volersi organizzare per aggiornare i propri impegni. A tale scopo stanno raccogliendo dati ed elaborando proposte. Infine ci sono 85 paesi, responsabili del 47% dei gas serra, che ancora non sanno se aggiorneranno i propri impegni. E stupisce che molti di essi appartengano ai paesi sviluppati, perché nel corso del G20 svoltosi il giugno scorso in Giappone, i capi di stato avevano riconosciuto la necessità di rispettare il 2020 come data per “comunicare e aggiornare i propri NDC, tenendo conto che servono ulteriori sforzi”.

Secondo l’Emission Gap Report del 2019 se le emissioni non cominciano a scendere del 7,6% all’anno da qui al 2030, il mondo perderà la sfida lanciata a Parigi che è quella di impedire alla temperatura terrestre di salire oltre il grado e mezzo centigrado. Ma per riuscirci servono tagli cinque volte superiori agli impegni complessivamente assunti. “Le emissioni vanno abbattute del 45% entro il 2030 e neutralizzate per il 2050. La sfida si presenta difficile – ha sottolineato Patricia Espinosa, segretaria della UN Climate Change – ma è essenziale vincerla per assicurare salute e sicurezza a tutti”.

Se la tendenza attuale non si interrompe, un bimbo che nasce oggi rischia di arrivare alla vecchiaia con una temperatura terrestre più alta di 3 gradi centigradi rispetto all’era pre-industriale. Per questo il 2020 è un anno di decisioni strategiche che richiedono impegni da parte di tutti. Dei consumatori che devono assumere stili di vita e di consumo più sobri e meno energivori. Delle imprese che devono adottare formule produttive orientate all’economia circolare, al risparmio energetico, alla solidità dei prodotti. E naturalmente da parte degli stati che oltre a svolgere una funzione di regia debbono assumere provvedimenti a favore delle fasce più deboli che essendo meno attrezzate potrebbero trovarsi in grande difficoltà di fronte ai cambiamenti imposti dalla transizione energetica. Rincari della bolletta energetica, perdita di posti di lavoro nei settori più inquinanti, rinnovo tecnologico in ambito abitativo e dei trasporti, sono passaggi che potrebbero risultare fatali per i più poveri se gestiti solo secondo le leggi di mercato. Per questo da più parti in Europa si rivendica un Green new deal, un poderoso intervento pubblico sulla falsa riga di quanto era stato realizzato negli Stati Uniti da Franklin Roosevelt negli anni trenta. Ma se all’epoca il new deal, il nuovo corso economico, era finalizzato essenzialmente alla riduzione della disoccupazione e al recupero di sicurezza sociale, oggi deve essere finalizzato alla transizione verso una società decarbonizzata senza squilibri sociali.

Il think tank inglese New Economic Foundation ritiene che il Green new deal debba reggersi su cinque pilastri. Il primo: maggiore spesa pubblica per il risanamento idrogeologico, la difesa delle coste, i rimboschimenti, opere utili a renderci più resilienti ai cambiamenti climatici. Ma maggiore spesa pubblica anche per sostenere gli investimenti di imprese e famiglie, utili a dotare case e aziende delle nuove tecnologie richieste dalla transizione energetica. E poiché il problema sono le risorse, un modo per procurarle potrebbe essere la creazione di un grande fondo pubblico di investimento, finanziato con prestiti e partecipazioni azionarie non solo da parte dei cittadini, ma anche delle istituzioni creditizie e monetarie. Il secondo pilastro consiste nell’emanazione di nuove regole capaci di spingere la produzione verso settori e modalità produttive di maggiore rispetto ambientale e maggiore efficienza energetica. Ma nuove regole anche rispetto all’orario di lavoro in modo da ottenere la piena inclusione lavorativa pur in presenza di una riduzione del tempo complessivo di lavoro richiesto. Il terzo pilastro consiste nella riforma fiscale che oltre ad essere più equa in termini di tassazione del reddito e del patrimonio, deve anche servire a scoraggiare la produzione di anidride carbonica, l’uso di energie inquinanti, il consumo di beni ad alto impatto ambientale e incoraggiare, invece, le pratiche virtuose come la riparazione degli oggetti e l’utilizzo di energie rinnovabili. Il quarto pilastro consiste nell’abolizione delle sovvenzioni dirette e indirette ai combustibili fossili, che a livello mondiale valgono oltre 320 miliardi di dollari. Il quinto pilastro, infine, consiste nel chiedere alle banche centrali di porre i cambiamenti climatici al centro delle proprie politiche. Del resto la stessa Christine Lagarde, nuova presidente della Banca Centrale Europea ha dichiarato che la lotta al cambiamento climatico “deve essere al centro della missione della Bce e di ogni altra istituzione”. In particolare la strategia a cui pensa la neo-presidente è quella di escludere dal portafoglio della Bce i titoli emessi da imprese coinvolte con i combustibili fossili per privilegiare quelli emessi da imprese orientate alle energie rinnovabili. Considerato che il portafoglio titoli della Bce ammonta a 2600 miliardi di euro, le imprese non rimarrebbero certo insensibili alle sue scelte. Ma le banche centrali potrebbero fare sentire il proprio peso anche accordando condizioni di prestito differenziato alle banche commerciali in base alle loro politiche di credito: condizioni svantaggiose per le banche che finanziano imprese coinvolte con i combustibili fossili, condizioni agevolate per quelle che finanziano imprese orientate alle energie rinnovabili. A qualcuno potrebbe sembrare troppo. Ma siamo in tempi eccezionali e i tempi eccezionali richiedono scelte eccezionali. Prima che sia troppo tardi

Da Avvenire del 13/12/19.