Immaginare di percorrere il viaggio tra Prizren e Subotica, letteralmente da un capo all’altro della Serbia, dal versante meridionale del Kosovo all’estrema punta settentrionale, al confine con l’Ungheria, della Vojvodina, non comporta solo un lungo trascorrere attraverso tutti i paesaggi di questo vero e proprio nucleo dei Balcani e della ex Jugoslavia, da Prizren a Prishtina, quindi da Prishtina a Belgrado e infine da Belgrado a Subotica, passando per Novi Sad, trascorrendo ore, paesi e città, di un lungo viaggio in questa dorsale balcanica; significa soprattutto riconoscere la straordinaria pluralità culturale, ma anche etnica, linguistica, religiosa, in definitiva, paesaggistica in senso antropologico, di questa regione, pluralità che è, al tempo stesso, connotazione saliente della sua vivacità e della sua ricchezza e condizione specifica delle sue vicissitudini e delle sue contraddizioni. Uno per uno, come una gigantesca, caleidoscopica, ricapitolazione, l’«itinerario di itinerari» si snoda attraverso i luoghi simbolo delle identità culturali: Prizren, con il suo patrimonio culturale ottomano e la memoria delle identità albanesi; Prishtina, la città delle stratificazioni e delle contaminazioni; Belgrado, vero e proprio luogo della memoria per i popoli slavi meridionali, «quaranta volte caduta e quaranta volte ricostruita»; Novi Sad, bella ed elegante, Capitale Europea della Cultura 2021, capoluogo della Vojvodina, anch’essa regione di pluralismo e multi-etnicità; arrivando, infine, a destinazione, Subotica.

È una città straordinaria: laddove la Serbia e l’Ungheria si affacciano sulla striscia del confine; vertice, con Sombor e Szeged, di un vero e proprio, splendido, Triangolo dell’Art Nouveau; nucleo di patrimoni culturali in cui si condensano le storie passate, asburgiche e mitteleuropee, e recenti, della Jugoslavia e della Serbia. Inevitabile che sia, come usa dire, in forza della sua storia e della sua memoria composita, la «Città dei Mille Nomi»: Szabadka, il suo nome ungherese, deriva da una denominazione originaria, Zabadka, attestata sin dal 1391; ma tale denominazione deriva, a sua volta, dall’antica designazione di “Città Libera” (Szabad), che pure pare attestata sin dall’epoca storica, a partire dal 1679; a questa, si affianca la denominazione serba, derivata dalla designazione “Subota”, che resta riconoscibile a partire dal 1653; di lì a poco, le nuove denominazioni avrebbero seguito il dettato del potere asburgico e la città sarebbe diventata dapprima Szent-Maria (Santa Maria) nel 1743 e poi addirittura Maria-Theresiapolis (Theresiapolis) nel 1779, in onore di Maria Teresa d’Austria.

È la memoria singolare, come si vede sin da queste denominazioni, di una città incredibilmente in bilico tra la sua storia magiara e la sua storia serba: territorio del Regno d’Ungheria tra il XIV ed il XVI secolo, dopo la storica Battaglia di Mohács del 1526, divenne capitale dello stato effimero del Banato di Jovan Nenad; poi, dopo il collasso del piccolo regno, fu sottoposta al potere ottomano dal 1542 al 1686, finendo, dopo l’altrettanto storica Battaglia di Senta del 1697, nel limes asburgico, e dopo la costituzione della «doppia monarchia» di Austria-Ungheria, centro della Vojvodina imperiale. In questa stagione, prima della sua incorporazione, all’indomani della Prima Guerra Mondiale, nel Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni, Subotica attraversò il suo «Periodo d’Oro» quando, nella seconda metà del XIX secolo e all’inizio del XX secolo, vi fiorì l’Art Nouveau al punto da rendere la città una vera e propria capitale europea di tale stile. È unica la bellezza e la singolarità di questa città: il suo centro storico è pressoché tutto Art Nouveau, nel quadrilatero che si snoda tutt’intorno alle Piazze della Repubblica e della Libertà.

Il Municipio (1912) e la Sinagoga (1902) sono, da questo punto di vista, estremamente significativi: perché sono tra i capolavori di stile che la città ospita, e perché sono una testimonianza ancora viva della straordinaria pluralità etnica, linguistica e religiosa, della città, non solo città di serbi e di ungheresi, di rom e di bunjevci, ma anche sede di una fiorente comunità ebraica. Le architetture civili e le architetture religiose si alternano e si inseguono nel breve volgere del centro storico: tra le prime, la grande Sala dell’ Incontro Artistico, opera di Ferenc Raichle, vibrante e colorata, del 1904, e la Biblioteca, del 1897; tra le seconde, la cattedrale cattolica di Teresa d’Avila (1779), la chiesa francescana (1736), che ospita tra l’altro una cappella con una splendida Madonna Nera, la chiesa ortodossa (1726). Ma anche due capolavori scultorei che testimoniano a loro volta la grande storia della città: il Busto dedicato al grande scrittore Danilo Kiš (nato a Subotica nel 1935, morto a Parigi nel 1989, tra i grandi della letteratura serba del XX secolo, con alcuni capolavori assoluti, tra i quali Giardino, cenere; Dolori precoci; Una tomba per Boris Davidović) e il gruppo della cosiddetta «Ballata degli Impiccati».

All’indomani dell’irruzione in città delle armate fasciste di Horty, l’ 11 aprile 1941, all’inizio della guerra mondiale in Jugoslavia, i comunisti, in città, si cimentarono nella costituzione della sezione locale del Partito Comunista Jugoslavo e della Unione della Gioventù Comunista, anche allo scopo di organizzare la diversione e il sabotaggio, in difesa della città, contro l’aggressione fascista. Seguirono, da parte dei fascisti ungheresi, numerosi arresti di comunisti e di patrioti. Tra il 1941 e il 1942, 118 membri del PCJ ed attivisti della resistenza furono arrestati, 15 furono condannati a morte dalla corte marziale dei fascisti ungheresi. L’esecuzione avvenne nel posto dove sorge oggi questo, uno dei più suggestivi memoriali della lotta di liberazione e della resistenza antifascista dei popoli jugoslavi, appunto, il monumento scultoreo della «Ballata degli Impiccati». Il suo messaggio simbolico resta potente. Vi si innesta una memoria grande, arte e memoria, promettente per il futuro: all’insegna dell’antifascismo, della pace, della pluralità culturale.