Quando a Gerico passa Gesù, racconta il Vangelo di Luca, il piccolo (di statura) Zaccheo, esoso e detestato esattore di tributi, per vederlo sale sul sicomoro. Ne scenderà promettendo di regalare ai poveri la metà dei suoi beni e di restituire alle vittime della sua ingordigia un valore pari al quadruplo di quello delle frodi ordite. Un miracolo, per chi è credente, che segna l’esistenza di un maestoso albero di grande rilievo storico. Alcuni esemplari di sicomoro sopravvivono a Gerico alle ingiurie del tempo e delle tante occupazioni subite dalla città millenaria della luna e dei profumi. L’origine del Ficus sycomorus è certamente egiziana, come testimonia la Historia Naturalis di Plinio il Vecchio, sebbene il nome scientifico derivi dal greco. Nelle zone più calde della Palestina, come appunto Ariha (Gerico) e parte della Valle del Giordano, l’albero di sicomoro si è però perfettamente acclimatato. Può arrivare a 20 metri di altezza e vivere per secoli, o forse perfino millenni, alimentando la speranza che i nuovi esosi accaparratori di terra, acqua e beni altrui dei nostri tempi si decidano a seguire l’esempio del pubblicano dell’occupazione romana Zaccheo.

Ed eccomi a Gerico, la città delle palme, la città della luna, il gioiello verde nel deserto adagiato sotto il livello del mare. Gerico raccontata tristemente nella Bibbia come la prima città conquistata dalle tribù ebraiche che ne sterminarono gli abitanti “per la gloria del Signore”.

Gerico, o meglio Ariha nel suo nome arabo che significa la città del profumo per le migliaia di essenze profumate che ne facevano una sorta di Eden, “regalata” da Marco Antonio a Cleopatra come giardino personale e da lei ceduta ad Erode il Grande che vi costruì uno dei suoi palazzi e ne sfruttò economicamente molte essenze facendo produrre preziosi unguenti. Oggi, che molte sorgenti le sono state sottratte da Israele per “far fiorire” i deserti e dissetare i suoi insediamenti illegali, Gerico resta ancora, nonostante tutto, una città affascinante.

Ogni volta che ci torno mi piace dare un’occhiata al sicomoro millenario che si dice stesse lì quando passò Gesù e che servì al ricco Zaccheo per arrampicarsi e permettere che si compisse il miracolo raccontato nel Vangelo di Luca.

Mi fermo un po’ e cerco di vedere se ha qualche frutto, ma niente, neanche stavolta. Però è bello, maestoso, mi piacerebbe toccarne la corteccia ma è vietato superare la zona di rispetto. Intanto, mentre scatto qualche foto, si avvicinano i venditori che sbarcano il lunario offrendo collane che giurano essere confezionate con pietre del deserto, o kefiah che giurano essere assolutamente originali prodotte da Hirbawi ad Al Khalil, altra storica città palestinese detta anche Hebron, o per offrire squisiti datteri medjoul, i più buoni che ci siano e che non hanno niente da spartire, se non il nome, con quei cugini minori e rinsecchiti che arrivano belli e confezionati sulle nostre tavole a Natale.

Devo confessare che quasi ogni volta ci casco. Parto con un approssimativo arabeggiante “la, la, shukran” pensando che sia più efficace di un asettico “no, thank you”, per poi passare a un più secco “Kalas!” cioè “basta!” ma non c’è verso, una kefiah riescono sempre a piazzarmela e ormai ne ho di tutti i colori! Anche i medjoul mi piazzano sempre. Ne compro almeno 2 pacchi per portarli in Italia ma drammaticamente li finisco prima di ripartire! Però sto attenta alla confezione, perché compro solo quelli palestinesi. Quelli israeliani non posso comprarli! Non è un capriccio o una particolare simpatia o antipatia magari di natura religiosa, figuriamoci, io sono atea! Rispetto tutte le religioni e sono ugualmente distante da tutte. No, il motivo è un altro, è che mi sembrerebbe un insulto verso l’albero cui vengo a rendere omaggio.

Proprio un insulto, perché nel racconto letto nel Vangelo e sentito tante volte da ragazzina, e che quindi è entrato a far pare della mia cultura, qui si compì il miracolo che rese Zaccheo, l’odioso esattore fiscale e truffatore, un uomo probo che proprio qui promise che avrebbe restituito il quadruplo di quel che aveva rubato dicendo “Ecco, Signore… … se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto”. Bè, come posso comprare datteri israeliani coltivati su terre rubate ai palestinesi proprio qui, davanti a quest’albero, sapendo che gli israeliani non solo non vogliono restituire niente, ma addirittura vorrebbero prendersi tutta la Valle del Giordano in cui mi trovo? No, proprio non si può! Quindi, solo datteri palestinesi. E ora posso dedicarmi al Sicomoro!

Il Ficus sycomorus appartiene alla famiglia delle moracee ed è originario del basso Egitto, tanto che Plinio il Vecchio nella sua Historia Naturalis lo chiama Ficus aegyptia. Ama i luoghi molto caldi, infatti in Italia non riesce a crescere e forse per questo ne abbiamo un’immagine mitica. Normalmente fruttifica diverse volte l’anno. Il nome scientifico deriva dal greco ed è la combinazione di due dei suoi elementi: le grandi foglie che somigliano a quelle del gelso (moron) e i frutti (sukon) che sono dei siconii, cioè involucri carnosi contenenti migliaia di micro-fruttini, proprio come i fichi, però molto meno saporiti anche se ricchi di zuccheri ed usati, nell’antichità, per sfamare le genti povere in quanto l’albero cresceva spontaneo e produceva più volte l’anno questi frutti modesti di sapore, ma molto abbondanti e nutrienti.

Quando da queste parti arrivò Davide, nel periodo in cui gli ebrei dominarono queste terre, che poi avrebbero ripreso a passare di mano in mano, trovò estese piantagioni di Ficus sycomorus tanto che creò la figura del sovrintendente alle coltivazioni di sicomori, il che fa capire quanto questi alberi fossero diffusi e apprezzati.

Ma il massimo degli onori il sicomoro lo aveva in Egitto, dove aveva avuto le sue origini e dove era consacrato alla dea Hathor, la dea dell’amore e della gioia, detta anche “la signora del sicomoro”. La mitologia egizia è ricca di simboli affascinanti e quello della dea Hathor, che in una delle tante versioni è madre e sposa di Horus – figlio del dio del sole ed identificato col sole a sua volta, mangiato al tramonto dalla dea e poi all’alba restituito alla vita – è sicuramente evocativa di fantasie che si legano al ciclo vitale e spiegano anche perché il legno del sicomoro veniva usato per i sarcofagi. Intanto è un legno che pur essendo morbido non viene attaccato dai tarli ed è di così lunga durata che nelle tombe egiziane di oltre 3000 anni fa, ne sono stati trovati alcuni ancora identificabili. Ma soprattutto questo legno era considerato come il grembo della dea madre in cui veniva deposta la salma per il suo viaggio nell’al di là. Quindi una sorta di rigenerazione e di legame tra in prima e il poi, argomento che ha sempre assillato il genere umano portando ad elaborazioni fantasiose, spesso accolte nelle diverse religioni.

Nelle zone più calde della Palestina, come appunto Ariha e parte della Valle del Giordano, l’albero è perfettamente acclimatato e può arrivare a 20 metri di altezza e vivere per molti secoli o forse millenni se quello che ho davanti è davvero lo stesso sotto il quale si fermò Gesù. Il sicomoro è stato considerato, nei secoli, anche una pianta medicinale oltre che alimentare e da legno. Il suo latice era usato già dagli antichi egizi per curare le pustole dovute alla scrofolosi, una malattia infettiva una volta molto diffusa, che attacca i linfonodi e produce fistole epidermiche. Inoltre era usato per eliminare i vermi intestinali, per combattere la dissenteria, per curare il mal d’orecchi e per favorire la cicatrizzazione delle ferite. I frutti del sicomoro, cioè quelli che chiamiamo frutti e che, come quelli del fico, sono in realtà delle infiorescenze raccolte in un involucro carnoso, mentre i frutti veri sono quelle migliaia di semini (che in botanica si chiamano acheni) che seguono all’impollinazione prodotta da alcuni imenotteri che si introducono nell’opercolo visibile in ogni infiorescenza. Essendo una pianta monoica, cioè con fiori unisessuati, senza l’impollinazione esterna non può fruttificare, e quindi non può riprodursi per seme, ma dove il clima le consente di resistere nonostante l’assenza degli imenotteri impollinatori, viene ugualmente coltivata, riprodotta per talea, per l’aspetto ornamentale e l’ombra che offre.

I suoi frutti possono essere mangiati freschi o cotti in marmellata o anche essiccati, ma perché maturino e siano quindi mangiabili, è necessario forarli con un ago per consentire l’emissione di etilene, un gas che ne facilita la maturazione. In passato questa foratura era addirittura un mestiere con un nome preciso, proprio perché in passato questi frutti rappresentavano un vero alimento e quindi una risorsa preziosa. La zona più ricca di piantagioni di sicomoro in Palestina, già diversi millenni fa, era la Valle del Giordano e in particolare la zona di Tecoa, villaggio ancora esistente e da cui arrivano tristi notizie perché Israele sta seguitando a cacciarne la popolazione per costruire altri insediamenti, ovviamente illegali, in barba ai richiami (tiepidi in verità) dell’ONU, oltre che ai diritti come sempre violati dei palestinesi Ma i sicomori non hanno voce e la luna di Gerico resta a guardare.

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